Lo “sviluppismo” senza sviluppo

Il governo italiano ha risposto alle perplessità europee sulla manovra economica con una lettera formalmente morbida, ma sostanzialmente rigida. Ad alzare i toni hanno pensato i leader (?) dei partiti di maggioranza: sono intenzionati a tenere ben aperto il contenzioso con la Commissione Ue fino alle prossime elezioni europee, in modo da incassare il dividendo dello scetticismo o addirittura dell’antieuropeismo montante. Poi si vedrà. Nel frattempo rischiamo di essere alla mercé dei mercati finanziari, ma chi se ne frega…

Nel bar frequentato abitualmente da mio padre c’era qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”. Mi sembra un po’ l’atteggiamento dei legastellati o pentaleghisti, come dir si voglia, verso le Istituzioni europee trattate a pesci in faccia, con un senso di superiorità, che pagheremo assai caro. La gag di cui sopra può infatti capovolgersi rapidamente e la parte degli stupidi la faremo noi italiani, che ci lasciamo guidare da un governo di irresponsabili.

Ma torniamo alla manovra economica. Se proprio vogliamo andare alla sostanza della questione di politica economica si pone il confronto fra due linee programmatiche, le quali a loro volta si collegano a due scuole di pensiero: siamo cioè alla diatriba fra rigoristi e sviluppisti. Da una parte ci stanno coloro i quali ritengono essenziale ed irrinunciabile una politica di contenimento del debito pubblico e di quadratura dei bilanci; dall’altra parte si mettono quanti opterebbero per una linea comunque espansiva, ritenendo sia meglio rischiare di affogare nel mare grande piuttosto che farsi inghiottire dalle sabbie mobili di un infido stagno.

Per mia formazione culturale e preparazione scientifica (modeste entrambe) sono orientato verso lo sviluppismo anche perché il rigorismo, a livello europeo, ci ha effettivamente impantanato in un clima di scarsa crescita: siamo un po’ come belle (?) donne, che si accontentano di specchiarsi anche se non le corteggia nessuno.

Il discorso sulla manovra economica del governo italiano, detto da quasi tutti i commentatori più autorevoli, non è però tanto riconducibile alla contrapposizione suddetta, ma ad una scelta sviluppista senza sviluppo. Lo sforamento dei parametri europei non si accompagna e non si giustifica infatti con adeguate misure a livello di investimenti pubblici ed a sostegno di quelli privati, tali da lasciare intravedere una crescita capace di rimettere in moto economia e occupazione, ma si accompagna ad una dilatazione di spese correnti di dubbia efficacia dal punto di vista economico e sociale. In parole povere la linea di politica economica del governo Conte non è né carne né pesce, è solo un modo smaccato di pagare le cambiali rilasciate a certe abbondanti fasce di elettori con dubbie prospettive di sostegno all’occupazione e alla giustizia sociale. Mi riferisco al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’alleggerimento dei requisiti pensionistici.

Si sta pertanto perseguendo un (non) dialogo fra sordi. A volte mio padre, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde:” No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.