La politica dei muri e dei forni

All’esame di maturità, sostenuto al termine della frequentazione dell’istituto tecnico commerciale, durante l’interrogazione in “diritto”, peraltro andata molto bene, il professore mi pose una domandina sibillina, che mi mise in difficoltà: non era nelle mie conoscenze e non ricordavo di avere colto nei miei libri di testo quella particolarità (sinceramente non la ricordo nemmeno oggi). Risposi così: «Professore questo argomento non è nel libro su cui ho studiato…». Il colloquio continuò e con la coda dell’occhio vedevo che l’esaminatore sfogliava e risfogliava il libro di testo alla ricerca dell’argomento perduto. Impiegò diverso tempo, ma alla fine lo trovò: era contenuto in una nota a piè di pagina, di quelle per le quali occorre la lente d’ingrandimento. Me lo fece notare. Allargai sconsolato le braccia, lui mi tranquillizzò e, nonostante quel piccolo incidente, mi assegnò un gran bel voto. Avevo tuttavia fatto un po’ la figura del Pierino di turno. A diciotto anni, in preda a forte tensione, emozionato come non mai, ci poteva anche stare.

Mi è sovvenuto questo curioso episodio scolastico, ascoltando i patetici scambi di battute sulla questione rifiuti tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio: forni inceneritori sì, forni inceneritori no. Il leader leghista adotta il solito schema da bar sport, riconducibile al ragionamento terra terra: i rifiuti non si possono mangiare, se non li vogliamo buttare a mare, bisogna bruciarli, meglio se in un impianto ad hoc piuttosto che con i roghi della disperazione. Salvini dice dei forni inceneritori: «Li dovrebbero scegliere i sindaci e la Regione, ma tutti dicono di no. Quindi li faremo. E senza ceppa». L’espressione “ceppa” era stata usata da Di Maio (non servono a una ceppa, vale a dire a una mazza, a un cavolo, a un c…). A questa invettiva leghista il leader cinquestelle risponde: «Sono dispiaciuto di questa polemica sugli inceneritori, che crea tensioni. Si fonda su un tema che non è nel contratto di governo, quindi non si pone». Non so se l’argomento sia indicato in una noticina scritta a caratteri minuscoli: fatto sta che, così come è assai riduttivo e poco “maturo” sostenere un colloquio d’esame con il libro di testo alla mano, non si può governare seriamente e compiutamente sulla base di un semplice contratto. I problemi esistono e vanno affrontati.

Resta la pochezza di un patto di governo meramente strumentale (non tengono i matrimoni d’amore, immaginiamoci un matrimonio di convenienza) e resta lo stucchevole spettacolo dei due galli nel pollaio, che si beccano continuamente: non so se finiranno col fare la sorte dei polli di Renzo o se metteranno tutti gli italiani in padella o nel forno assieme ai rifiuti. Fuor di metafora, politicamente parlando, si scontrano continuamente due modi di intendere la politica. Il leghismo salviniano adotta il pragmatismo da osteria: un modo per farsi capire ed entrare in sintonia con il brontolio intestinale della gente, fatto di soluzioni “un tanto al metro”, di risposte sbrigative a problemi enormi. Il grillismo dimaiano adotta invece lo schema ideologico del “benaltrismo” illusorio ed inconcludente, fatto di risposte radicali ed aggrovigliate ai problemi semplici. Il punto d’incontro sta nel contestare tutto e tutti. Il punto di scontro sta nel far quadrare il cerchio delle scelte, non dico strategiche perché sarebbe chiedere troppo, ma nemmeno tattiche.

Tornando ai rifiuti, problema serio al di là dei triviali, volgari e lirici approcci, su questo tema si stanno scottando le dita gli amministratori locali di espressione grillina, da Parma a Roma: effettivamente non basta dire no ai termovalorizzatori, la politica dei no sta in poco posto. I leghisti al contrario provano a cavalcare i termovalorizzatori quale scorciatoia rispetto ad un problema molto più articolato e complesso: la risposta brutale a ciò che dà fastidio, dai migranti ai rifiuti il passo è breve. Posso dirla grossa, posso esagerare? Speriamo di non arrivare a scambiare le soluzioni: i muri per i rifiuti e i forni per gli immigrati.