I manovratori disturbati

Il ministro dell’economia Tria ha inviato la lettera di risposta alla Commissione europea, dopo la missiva ricevuta il 18 ottobre direttamente dal commissario Moscovici. La manovra “non espone a rischi la stabilità finanziaria dell’Italia né degli altri Paesi dell’Unione europea”, scrive Tria, “riteniamo infatti che il rafforzamento dell’economia italiana sia anche nell’interesse dell’intera economia europea. “Qualora i rapporti deficit/Pil e debito/Pil non dovessero evolvere in linea con quanto programmato, il Governo si impegna ad intervenire adottando tutte le necessarie misure”. “Per il sentiero del Saldo strutturale, il governo è cosciente di aver scelto un’impostazione della politica di bilancio non in linea con le norme applicative del Patto di stabilità e crescita” si legge nella lettera del ministro Tria. “È stata una decisone difficile ma necessaria alla luce del persistente ritardo nel recuperare i livelli di Pil pre-crisi e delle drammatiche condizioni economiche in cui si trovano gli strati più svantaggiati della società italiana”, aggiunge e spiega Tria.

La risposta, abile (?) nei contenuti e morbida nei toni, non ha commosso la Commissione europea forse l’ha ulteriormente indispettita, non è riuscita ad evitare una seppur non definitiva bocciatura, anche e soprattutto perché elude la questione di fondo. Conversando a ruota libera, nei giorni scorsi un amico mi sottolineava come qualsiasi manovra economica di un qualsiasi Stato non possa che comportare un deficit di bilancio. In effetti diversamente non ci sarebbe bisogno di manovrare, ma solo di utilizzare il surplus in un modo o nell’altro. Il problema sta quindi tutto nella finalizzazione del deficit e del suo contenimento a livelli compatibili con i patti europei. L’Ue non esige un bilancio alla pari, ma un disavanzo strutturale (deficit ripulito dagli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum) al di sotto dello 0.5% del Pil (prodotto interno lordo). L’Italia si era impegnata, in deroga alle regole europee, a contenere il deficit pur superando ampiamente il livello suddetto. L’attuale governo ha alzato ulteriormente di uno 0,8% il deficit previsto (un “ritocco” pari a 14 miliardi, il fabbisogno per le due novità demagogiche ed elettoralistiche, vale a dire il reddito di cittadinanza e la riforma della Legge Fornero), che arriverebbe così al 1,7% del Pil, smentendo clamorosamente lo stesso ministro dell’economia, che continuava a rassicurare le istituzioni europee (salvo fare un dietrofront assai poco dignitoso).

La motivazione politica di tale programmato sforamento è data dal fatto che l’Italia più che contenere il numeratore del suddetto rapporto deficit/Pil punta ad aumentare il denominatore, vale a dire il Pil varando una politica espansiva e di sviluppo. Il nostro Paese risponde ad una regola superandola con la scommessa che il Pil decollerà e quindi il rapporto tornerà compatibile con il contemporaneo innalzamento delle condizioni di vita dei soggetti più in difficoltà.  Così per il deficit, così per il debito.  I patti però tenevano già conto di queste necessità e concedevano una certa flessibilità, senonché l’Italia, tramite il governo Conte, vuole allargare notevolmente la forbice sperando di recuperare sul Pil, allargando cioè la domanda a livello di consumi e di investimenti e di conseguenza la produzione.

Mi pare che, sia quantitativamente che qualitativamente, il discorso non regga: troppo alto lo scostamento, troppo evanescenti e improbabili gli effetti della manovra. In poche parole vi sarebbe la certezza di nuove spese a fronte delle quali esisterebbe una assai discutibile probabilità di sviluppo. Piuttosto semplicistica appare la clausola di salvaguardia: se ci sbagliamo correggeremo la manovra. Chiediamo un atto di fede all’Europa, la quale obiettivamente fa molta fatica a concedere eccezioni così importanti, anche perché altri Stati potrebbero richiedere analoghe deroghe e salterebbe tutto il meccanismo pattizio. Poi cosa succederà a livello di debito pubblico? Qui c’è effettivamente da tremare al punto che la Bce ha già ideato una rete protettiva nei casi in cui uno Stato abbia difficoltà a finanziarsi collocando i suoi titoli.

Fortunatamente dalle offese salviniane e dalle minacce dimaiane siamo passati alle analisi triane. Meglio di niente. Sarebbe come se un condomino chiedesse di derogare al regolamento condominiale insultando l’amministratore e gli altri condomini. Forse la fase degli insulti è finita e il ministro Tria sta tirando fuori i fazzoletti con cui asciugare le lacrime da spargere per impietosire i partner.  Speriamo che, alla fine dell’iter, a fronte delle nostre artificiose lacrime non ci venga richiesto il rigoroso sangue. Morale della favola: non si può governare a colpi di clava per poi pretendere di dialogare in punta di fioretto; non ci si può rimangiare la parola; non si possono disfare di notte le riforme fatte di giorno; non si possono fare promesse impossibili in campagna elettorale e pretendere di farle bere agli altri Stati europei; non si può far credere alla Commissione europea che gli asini volano. Sul fatto che ci siano degli asini, penso che lo abbiano capito molto bene, ma sul fatto che volino penso mantengano seri dubbi.