Lo storytelling del fascismo

In questi giorni ricorre il triste ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziste contro gli Ebrei: una ricorrenza che rischia di passare inosservata. Non so se si tratti di rimozione a livello psico-storico, in un momento in cui certi fantasmi razziali si stanno aggirando per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Forse è colpa soltanto del tempo che passa e cancella le orme di un passato vergognoso?  Non credo!

Fa notizia invece il funerale del docente di Diritto italiano all’Università di Sassari, che sta suscitando polemiche: i “camerati” schierati che salutano “romanamente” il professore e rispondono “presente” al richiamo “camerata Giampiero Todini”. Il video è stato postato dalla consigliera comunale del centro-sinistra, Lella Careddu, che commenta: «Nella nostra città, sul sagrato di una chiesa, senza vergogna. Fascisti sdoganati».

Lo storytelling è l’arte del raccontare storie, impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, specialmente in ambito politico, economico ed aziendale. In parole povere la storia non è fatta obiettivamente dagli accadimenti, ma dal racconto che di essi si fa strumentalmente. Ha ragione da vendere Lella Careddu: lo storytelling, in questa fase politica, sdogana il fascismo, coprendo, con manifestazioni nostalgiche e sottovalutazioni culturali, l’orrore delle scelte di un regime; relega la storia in un passato da compatire e le toglie l’insegnamento per il futuro.

Il prossimo 20 settembre l’Università italiana chiederà scusa alle vittime delle leggi razziali: i rettori degli Atenei non intendono fare una semplice commemorazione, ma vogliono dare un forte monito per il presente e per il futuro, che dovrebbe servire a riaccendere l’attenzione su quello che può riaccadere. Sarà bene che si faccia anche un esame di coscienza sul fatto che solo una ristrettissima minoranza dei docenti universitari seppe prendere le distanze dal regime rifiutando la tessera del fascio. Servirà a rendere più credibile e profondo l’appello.

Lo storytelling del fascismo fortunatamente me lo sono trovato in casa. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? E a me, ancora bambino, raccontava episodi di vita vissuta nella culla antifascista dell’Oltretorrente. Uno storytelling sanguigno e diretto che mi ha forgiato culturalmente e politicamente.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) imponevano e impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.