Le nostre incivili prigioni

Una detenuta del carcere romano di Rebibbia ha gettato dalle scale i suoi due figli, uno è morto e l’altro è ferito gravemente. Li avrebbe lanciati giù per due rampe della sezione nido del penitenziario dove sono ospitati bimbi fino a 3 anni. La donna ha 30 anni ed era in carcere per reati di droga. È morto il figlio più piccolo di 4 mesi. L’altro, 2 anni, è in uno stato di coma irreversibile. La detenuta era stata arrestata ad agosto scorso per spaccio di stupefacenti. Il ministero della Giustizia ha aperto un’inchiesta.

Fin qui l’asciutta notizia, che rischia di passare inosservata nel marasma mediatico della politica e della cronaca. Ne capisco la scarsa audience e l’ancor più scarso appeal elettorale nel clima di paura e di ansia, che si è instaurato nella nostra società. Resta comunque validissimo ed attualissimo l’aforisma di Fëdor Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Così come dobbiamo sempre fare riferimento al dettato costituzionale: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.

Se confrontiamo la portata del drammatico episodio di cui sopra con quanto dispone la nostra Costituzione, c’è da rimanere allibiti. La colpa di questa madre è ricaduta sui figli, che ne hanno patito le conseguenze in modo tragico. Probabilmente era in attesa di giudizio definitivo e quindi non colpevole. La pena per una madre accompagnata in carcere dai figli in tenera età mi sembra contraria al senso di umanità. Costringere una madre a vivere in carcere con i figli non è certamente il modo migliore per rieducarla e reinserirla nella società: le si creano sensi di colpa che possono sfociare nel suicidio o nell’omicidio “liberatori”. Trattare in questo modo disumano una donna carcerata è come subdolamente condannare a morte lei e i suoi figli.

Se poi prendiamo alla lettera Dostoevskij dovremmo concludere di essere degli incivili belli e buoni. Il problema carcerario è molto delicato e complesso, ma non si può accantonare con un’alzata di spalle o affrontare con cattiveria vendicativa. La lunghezza delle procedure giudiziarie e del carcere preventivo, la mancanza di pene alternative serie, la possibilità di lavoro per i carcerati, la vivibilità delle prigioni, l’assistenza sanitaria ai carcerati sono tutti aspetti di una materia che, se non affrontata in modo positivo e costruttivo, sforna una quantità enorme di suicidi, una recrudescenza della delinquenza, morti per mancanza di cure adeguate, etc. etc.

La politica, ad eccezione della storica e meritoria attenzione del partito radicale con tutte le sue iniziative interessanti e importanti, è latitante. Spesso chi ha il coraggio di denunciare questa situazione viene tacitato con le solite cavolate: occupiamoci degli onesti, se lo sono voluto, e…amenità di questo tenore. La lotta alla delinquenza non si fa riempiendo a dismisura le carceri, ma vuotandole nel senso di recuperare tutto ciò che è recuperabile, investendo in tal senso e non temendo di sprecare risorse: se una persona esce dal carcere cambiata nella sua mentalità è una vittoria umana e sociale in tutti i sensi; se la persona esce dal carcere frustrata e incattivita è una sconfitta per tutti e un incentivo alla delinquenza.