La democrazia che si ferma è perduta

In questi giorni tutti i più autorevoli commentatori politici si interrogano sulla tendenza popolare europea a radicalizzarsi su posizioni di destra estrema, tali da mettere in discussione il futuro stesso dell’Unione. I partiti nazionalisti, sovranisti, reazionari, filo-razzisti e xenofobi sarebbero in grande ascesa di consensi, mentre i partiti tradizionali, socialdemocratici (la sinistra riformista) e popolari (la destra moderata), avrebbero perso il legame con la gente, orientata a cercare istintivamente e sbrigativamente soluzioni facili e immediate a problemi difficili e complicati. Questa tendenza, in alcuni Paesi come l’Italia, assume una connotazione più sfumata, in quanto, a contendersi l’elettorato scettico, protestatario e sostanzialmente reazionario, sono in campo anche formazioni genericamente populiste riconducibili alla cosiddetta anti-politica.

Nella base popolare ed elettorale esiste da sempre la spinta a radicalizzarsi su posizioni nette: potremmo dire che il popolo ama il populismo ben più della democrazia. Il primo, infatti, gli offre l’illusione di essere perfettamente ascoltato e interpretato nelle sue ansie e paure, mentre la seconda gli prospetta soluzioni lunghe, complesse, talora poco chiare. La gente non ama le mezze-tinte, preferisce i colori forti ben riconoscibili e alquanto sgargianti.  Fino a quando, politicamente parlando, hanno tenuto le ideologie, socialismo e cattolicesimo in particolare, la saldatura tra la gente e i governanti era garantita da una fideistica adesione, che consentiva alla politica di compromettersi nei modi e nei tempi della storia senza perdere il contatto con gli elettori. La popolazione capiva perfettamente che le soluzioni tardavano ad arrivare, ma i ritardi erano colmati da una sorta di certezza ideale e valoriale e ciò bastava a rassicurarli.

La caduta delle ideologie, che purtroppo ha trascinato anche i valori sottostanti, ha costretto la politica a misurarsi in campo concreto, a fare un pragmatico bagno di governo, in cui si sta dibattendo con gravi difficoltà. Il ragionamento della gente è questo: se la democrazia rappresentativa, con i suoi riti e le sue procedure, non risolve i problemi, meglio affidarsi a chi punta direttamente al sodo senza mediazione e senza progressione, magari anche calpestando quei valori che sembravano irrinunciabili fino a qualche tempo fa.

Sono d’accordo con chi, vedi i radicali italiani, sostiene che alla deriva radicale populista europea non bisogna illudersi di rispondere solo con la chiamata a raccolta dei progressisti, con un richiamo della foresta che forse non esiste più, ma soprattutto con l’istituzionalizzazione democratica del radicalismo: è giunto il tempo di smetterla di tergiversare con i balletti europei per puntare decisamente alla Federazione di Stati che superi gli schemi nazionali duri a morire e quelli comunitari duri a vivere. Bisogna cioè rispondere alzando il livello del contendere e tentando di rispondere all’insano populismo politico con il sano populismo democratico. Solo così forse si riusciranno a rianimare le coscienze obnubilate dall’egoismo dell’antipolitica.

I margini di recupero esistono: sembrava che le elezioni in Svezia potessero segnare la debacle definitiva del riformismo socialista nella sua culla geografica e storica con l’annunciato trionfo della destra estrema. Non è stato proprio così: la destra avanza, ma non stravince. La fiammella è ancora probabilmente accesa: anziché pensare semplicemente di rianimarla, alimentandola coi richiami alla tradizione democratica dell’Occidente, sarebbe il caso di utilizzarla per appiccare l’incendio istituzionale all’Europa in senso federale e comunitario. Le prossime elezioni europee vanno giocate all’attacco: chi si difende è perduto.  A mio giudizio non è il momento di vedere e scoprire i giochi, ma di rilanciare alla grande: la democrazia che si ferma è perduta.