Il crollo del ponte solleva il polverone burocratico

Si potrebbe dire “dopo il danno la beffa”. È quanto rischia di succedere relativamente al crollo del ponte Morandi: comincia a intravedersi un gioco allo scarico di responsabilità fra la società autostrade e il ministero delle infrastrutture, emerge una corrispondenza dai toni burocratici, che sembra fatta apposta, non per prevenire i disastri, ma per mettere le mani avanti nel caso in cui si verifichino. Dalla caterva di documenti sequestrati ed attualmente nelle mani della magistratura inquirente non potranno emergere con chiarezza le responsabilità: troppo complessa e delicata la materia, troppo astuta la burocrazia a nascondersi dietro le prassi amministrative, troppo difficile stabilire le cause dell’evento e se questo potesse o meno essere previsto ed evitato o quantomeno se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo. Perizie, contro-perizie, relazioni tecniche, pareri legali, discussioni infinite: probabilmente non si arriverà a capo di nulla.

Che infastidisce non è tanto l’incertezza su cause e responsabilità; che irrita parecchio è il “ma noi l’avevamo scritto”, “ma la questione era stata sollevata”, “ma attendevamo una risposta”, “ma avevamo fatto la segnalazione”, “ma questo non toccava a noi”, “ma doveva pensarci qualcun altro”. Mio padre, uomo portato al dialogo ed al confronto con le persone e le istituzioni, piuttosto tollerante con tutti, capace di sdrammatizzare le situazioni; non sopportava però di essere preso in giro, di finire stritolato nel giochetto del rimando a tizio e caio, non accettava d’esor tôt pr’al cul (per dirla alla parmigiana). Se si trattava di battute o di episodi bonari, tutto andava bene (in fin dei conti, chi la fa, l’aspetti), ma, quando si faceva sul serio, reagiva e non accettava. La sua etica gli imponeva l’intransigenza assoluta.

Raccontava spesso episodi accadutigli in ambiente di lavoro. Mio padre era artigiano-imbianchino e lavorava in cantieri dove doveva confrontarsi con altri operatori edili ai quali a volte doveva chiedere qualcosa di importante per la corretta prosecuzione dei lavori. Una volta se lo rimandarono da uno all’altro: «Veh, d’mandol a lilù…». «No, pärla con chilù…». «No, sènta lalù…». A quel punto la pazienza finì: «Ragas, am tóliv pr’al cul? Adésa basta!». Così come sapeva essere aperto e simpatico, all’occorrenza la sapeva mettere giù dura ed aveva mille ragioni.

L’episodio più spiacevole, che talora rammentava, risaliva al periodo in cui lavorava non da artigiano, ma da dipendente. Ad un cliente, che aveva chiesto un intervento straordinario rispetto al preventivo stipulato, su preciso ed espresso incarico del suo datore di lavoro fu costretto a dire un categorico No, spiegando di avere parlato col “padrone” che così aveva deciso. Se non ché pochi istanti dopo, arrivò il padrone al quale il cliente chiese conto: «Come mai lei dice che non è possibile fare questo intervento?». Il padrone, che aveva evidentemente mandato mio padre allo sbaraglio, rispose: «Mi, an säva niént …, adésa a v’dèmma…». Mio padre mi diceva che, per non rischiare il posto di lavoro si morse la lingua e tacque, ma se avesse potuto reagire liberamente gli avrebbe sferrato un pugno nei denti. Sì, perché in quei casi non bisogna porgere l’altra guancia, ma l’altro pugno.

Trasferiamo questa intolleranza verso la presa in giro all’elevato livello del ponte Morandi e ci sentiremo cornuti e mazziati. È questo l’inghippo burocratico che paralizza e squalifica il nostro paese, che allontana gli investitori, che rende tutto lungo e incerto. Hanno provato in tanti a riformare la burocrazia, a snellirla, a renderla più efficiente: non ci sono riusciti. Le cause storiche si sommano a quelle sociali e politiche. Alla politica tutto sommato fa gioco una burocrazia elefantiaca e invadente; alla burocrazia fa comodo una classe politica incompetente e inconcludente. La burocrazia è competente, esperta e capace, ma si nasconde dietro la politica: al caos legislativo aggiunge un di più di inerzia e di confusione interpretativa. Non bisogna generalizzare. Ho conosciuto fior di funzionari, ma anche fior di fannulloni. Quanti episodi avrei da raccontare al riguardo!

Basti rammentare questo piccolo episodio. Mi trovavo per impegni professionali nell’anticamera di una Commissione Tributaria e partecipavo al gossip di attesa, che verteva sulle solite lamentele riguardanti la complessità degli adempimenti fiscali per il contribuente e la loro scarsissima chiarezza. Teneva banco un esperto professionista di Milano, il quale, ad un certo punto, stupì tutti con una rivelazione dal sapore scandalistico. In riferimento al contenuto delle risoluzioni del Ministero delle Finanze (le risposte che gli uffici centrali danno ai quesiti dei contribuenti singoli o associati) chiese ai presenti se conoscessero il perché di tanta ambiguità e di così poca chiarezza. Nessuno ebbe una risposta pronta e questo pretenzioso commercialista sputò la sua motivazione: «Dal momento che le risoluzioni vengono redatte da funzionari di alto livello, responsabili di quanto affermano, esisterebbe una norma ovviamente segreta, una sorta di patto corporativo in base al quale verrebbero introdotti nel corpo delle risposte espressioni ambigue, parole contraddittorie, incisi fuorvianti in modo da rendere interpretabile in modi diversi il testo e da evitare quindi spiacevoli responsabilità ai funzionari stessi. Questi quindi solleverebbero comunque un po’ di polvere per coprirsi le spalle da errori o da leggerezze interpretative».  Tutti i presenti rimasero di stucco. Anch’io non reagii, la discussione cadde, ma il dubbio rimase ed ogni volta che leggevo una risoluzione ministeriale poco chiara mi ricordavo di quell’illustre signore: l’aveva sparata grossa, ma forse non era andato lontano dalla verità.