Il ponte dei sospiri

Ogni giorno accadono fatti tragici nel mondo: terremoti, alluvioni, atti di guerra, attentati terroristici, incidenti aerei, ferroviari e stradali, etc. L’impressione che suscitano in noi è inversamente proporzionale alla distanza dai luoghi interessati. Quando ad esempio sento o leggo distrattamente di un terremoto nelle Filippine, mi chiedo perché ne sarei tanto più colpito se fosse successo in Italia, ancor di più in Emilia, a Parma non se ne parla. Qualcuno potrebbe rispondermi: è umano! Siamo proprio sicuri che sia umano. Non sono uomini e donne come noi quelli che muoiono sotto le macerie a migliaia di chilometri di distanza?

Non so quanto ci sia di epidermico, di farisaico, di mediatico e financo di politico nella reazione a certi eventi impressionanti. Siamo di turno: questo ferragosto passerà alla storia come quello del crollo del ponte, non quello vacanziero rovinato dal maltempo, ma quello del ponte Morandi di Genova.  Ricordo il deragliamento di un treno nel gennaio 1997: il pendolino, che viaggiava sulla tratta Milano – Roma, nell’imboccare la curva di ingresso alla Stazione di Piacenza deragliò e morirono due macchinisti, due agenti della polfer, due hostess e due viaggiatrici. A bordo del treno si trovava anche il senatore a vita Francesco Cossiga, ex-presidente della Repubblica, che uscì illeso.  Immediatamente si scatenò la caccia alla causa di tale incidente: eccessiva velocità del treno, stato di ubriachezza dei macchinisti, guasto tecnico e chi più ne aveva più ne mise. I cronisti assalirono letteralmente Cossiga, che, se non ricordo male, tamponava con un fazzoletto una leggera ferita alla fronte. Volevano raccogliere le sue reazioni a caldo, pensando e sperando che si lanciasse in una delle sue storiche picconate. Restarono delusi perché l’ex presidente non fece alcun commento e si limitò provocatoriamente a dire: «Cosa è successo? È deragliato un treno…». Una lezione di stile e di serietà.

Ho scomodato questo episodio e la reazione ad esso di Francesco Cossiga per sottolineare la necessità di fare un po’ di silenzio di fronte a questi eventi tragici: la commozione, lo sgomento, il senso di insicurezza dovrebbero imporci di parlare poco e di riflettere molto. Invece, subito dopo il crollo del ponte autostradale di Genova, via alle insulse dirette TV, alle stereotipate promesse di fare giustizia, ai giudizi negativi sulla sicurezza delle infrastrutture viarie, ai processi sommari, alle speculazioni e strumentalizzazioni, al solito clima di caccia alle streghe.

Innanzitutto abbiamo la pretesa che non possano più esistere le cosiddette fatalità: ce la possiamo e dobbiamo mettere tutta, ma ricordiamoci che non siamo perfetti e l’errore più o meno colpevole è possibilissimo a tutti i livelli ed in ogni fase. In secondo luogo ognuno deve prendere la sua parte di responsabilità, non per andare in galera (a questo ci penserà eventualmente la magistratura), ma per migliorare la programmazione, la progettazione, la manutenzione e la gestione del territorio e delle opere pubbliche.  Con ciò non voglio assolvere tutti chinando il capo davanti alle disgrazie, né tanto meno colpevolizzare tutti. Mi sento in dovere invece di mettere in discussione tutta la nostra impostazione di vita.

Con il crollo del ponte di Genova sono ulteriormente crollate anche le nostre certezze. Rimbocchiamoci le maniche. Invece, dopo il transitorio polverone sollevato con l’ausilio mediatico, tutto tornerà come prima, fino al prossimo crollo. Non ci accorgiamo che così facendo ci autoseppelliamo tutti sotto le macerie. Mio padre, col suo solito scetticismo al limite del sarcasmo, scuoteva il capo con un sorriso ironico, quando, in occasione di eventi tragici, al termine dei servizi speciali sul posto effettuati con accanimento cronachistico, che si chiudevano con l’enfatico bilancio delle vittime (tot morti, tot, feriti e tot dispersi), chi riprendeva la linea dallo studio televisivo chiosava il tutto con un “bene”, come dire: il più è fatto…