Urlatori al governo: al guèron di zbrajón

Sulla balconata del villino prospicente il condominio in cui abitavamo al piano terra un bambino esagitato e capriccioso si esibiva spesso con urla e grida estemporanee e fastidiose. In famiglia si commentava con garbo e discrezione questa strana situazione per trovarne una spiegazione plausibile. Mia madre propendeva per una interpretazione storico-geografica: probabilmente il bambino aveva precedentemente vissuto in un ambiente rurale ed in una casa isolata e si era abituato a sfogare le proprie sensazioni all’aperto, sull’aia, dove nessuno al di fuori dei suoi famigliari lo poteva sentire e dove le orecchie degli estranei non potevano essere disturbate. Mio padre invece dava una lettura di carattere psico-patologico. Quel bambino non poteva essere normale, aveva qualche problema psicologico, lo lasciavano fare, altrimenti suo padre gli avrebbe intimato: «Veh, putén, lasa lì o vén a zbrajär in ca!». Mia madre scuoteva il capo sorridendo per l’originalità del ragionamento, mentre io francamente lo ritenevo abbastanza plausibile anche se sinceramente dispiaciuto per gli eventuali problemi di quel ragazzo, il quale crebbe, si calmò e se ne persero le tracce, perché la sua numerosa famiglia andò ad abitare in un’altra zona.

Dove voglio arrivare citando questo gustoso episodietto, che metteva in rilievo la diversità di carattere dei miei genitori più che fornire spiegazione ad una situazione difficile da valutare dall’esterno.  Vorrei applicare il metro di giudizio di mia madre e mio padre all’interpretazione delle continue, petulanti, rissose esternazioni dei principali esponenti dell’attuale governo, che potremmo ribattezzare tranquillamente come “guèron di zbrajón”.  In Italia si governa alle grida, ad ogni problema fa riscontro un “zbraj”, come in quelle famiglia in cui si affrontano le situazioni facendo volare i piatti. Lo specialista “zbrajón” è senza alcun dubbio Matteo Salvini, ma anche i suoi colleghi non scherzano.  È una tattica: portare la tensione al massimo per divagare e non affrontare i problemi, creare sempre e comunque l’incidente verbale per eludere la realtà, gridare e picchiare i pugni sul tavolo per dare l’idea di poter gestire le situazioni difficili. Gli sprovveduti e/o gli esasperati ci cascano. Mia madre, nella sua incommensurabile pietà, propenderebbe per assimilarli ad ingenui e istintivi bambini, che, quando non sanno cosa dire, per protestare gridano e piangono a dirotto. Mio padre, nella sua acuta capacità critica, ne farebbe dei furbi venditori ambulanti, che gridano per deviare l’attenzione dalla scarsa qualità delle loro merci.

In una stupenda poesia dialettale di Alfedo Zerbini, una popolana parmigiana spiega il suo metodo educativo fatto a suon di invettive, improperi e parolacce e, al termine di questa simpaticissima chiacchierata, conclude affermando paradossalmente che “l’educassion” ai figli non si può dare che in casa sbraitando e vomitando insulti a destra e manca. L’attuale governo quindi sta adottando un modo colorito e vivace per educare la gente. Se è così, preferisco di gran lunga rimanere maleducatamente legato alla politica “dil parolén’ni blizgozi”, a costo di girare all’infinito intorno ai problemi.  Buttare, come si suole dire, “il prete nella merda” non toglie di mezzo la merda. In una compagnia dilettantesca di prosa, un grezzo ed impreparato attore, durante una rappresentazione, non si ricordava della parte e continuava a ripetere l’ultima battuta che aveva in testa: “questa casa va a catafascio”. Non ricordo come se ne uscì, certo non fece una gran figura, ma la maggior parte del pubblico non se ne accorse, anzi apprezzò la convinzione con cui porgeva quella battuta. E la casa, meglio dire la compagnia, andò effettivamente a catafascio.