Il martire del dialogo

In questi giorni in cui ho letto, ascoltato, visionato tanti ricordi su Aldo Moro in corrispondenza del quarantesimo anniversario della sua tragica morte, ma anche in concomitanza con le squallide vicende di una sconfortante contingenza politica, mi ero ripromesso di non cedere alla tentazione della nostalgia e di evitare l’impietosa lettura politica del presente sulle ali della rivalutazione storica del passato. Ho provato a resistere, ma, lo confesso, non ci sono riuscito.

Risparmio i facili e paradossali raffronti tra i leader odierni e quelli del passato, non mi avventuro in analisi comparate tra prima, seconda, terza, quarta repubblica, perché la Repubblica è una, è nata dalla Resistenza, è democratica e fondata sul lavoro, è frutto della coerenza, della sensibilità e della lungimiranza di esponenti politici cattolici e laici, democristiani, socialisti e comunisti, di cui purtroppo si è perso lo stampo umano e culturale.

Mi limito a due riflessioni. In un tempo in cui i rapporti sono freneticamente e presuntuosamente impostati sul clamore del nulla fatto identità, emergono grandiosamente lo stile e la cifra dell’opera di Aldo Moro, riconducibili sostanzialmente al “dialogo”, presupposto irrinunciabile nei rapporti tra gli uomini, tra le generazioni, tra le classi sociali, tra cultura e politica, tra partiti, tra Stati, tra religioni. Il dialogo con gli studenti, anche i più ribelli, con i lavoratori, anche i più rivoluzionari, con i partiti, anche i più incollati alle ideologie, con gli Stati, anche i più chiusi nella loro logica di potenza. Il dialogo, che, durante la prigionia di Aldo Moro, diventa probabilità di trattativa, come avviene durante le guerre per tenere aperto lo spiraglio della pace.

Sì, il dialogo! Che non è mai fine a se stesso, perché è onesto e attento ascolto delle ragioni altrui. Lui ne era il paladino e ne diventò il martire. Sono sicuro che tentò di dialogare anche con i suoi carcerieri, con i brigatisti, che non ci diranno mai cosa sia effettivamente successo in quei giorni: troppo grande la distanza abissale tra la cattiveria di un’assurda rivoluzione e la mitezza di una problematica riforma. Lo Stato in quei difficilissimi giorni non provò nemmeno a seguire Moro sulla strada del dialogo/trattativa, preferendo attestarsi sul primato assoluto del diritto dello Stato rispetto alla spasmodica ricerca dello Stato dei diritti. Non era paura, non era debolezza psicologica, non era puro spirito di conservazione, era uno stile di vita portato fino alle estreme conseguenze. Moro, vittima del dialogo, o meglio, vittima della mancanza di dialogo. Moro non muore disperato, basta leggera la lettera di addio alla moglie, in cui chiude in modo grandioso il cerchio della sua vita, mettendo ogni cosa al suo posto (la verità tutta intera, come dice il Vangelo).

La seconda riflessione mi viene suggerita dalla memoria che ne fece, a caldo, Amintore Fanfani, allora Presidente del Senato, portatore di una visione politica diversa, ma ugualmente apprezzabile nella sua profondità di pensiero e nella sua coerenza di comportamento.   Non a caso fu il democristiano che cercò di trovare qualche appiglio moroteo durante i giorni della prigionia, non a caso fu l’unico personaggio politico accolto alle esequie promosse dalla famiglia in forma drasticamente privata, non a caso era considerato, rispetto a Moro, l’altro cavallo di razza della leadership democristiana. Andò a prestito dalle parole che lo stesso Moro usò per ricordare il tragico attentato a John Kennedy. I giganti della storia passata che “si danno voce”, mentre i nani della storia presente “si danno nella voce”.