Patti impossibili, amicizia molto breve

Quando due persone decidono di sposarsi o comunque, come si fa prevalentemente oggi, di convivere, dopo la iniziale passione amorosa, verificano una comunanza (non vuol dire identità) di idee e valori e poi presumo (non ho infatti esperienza diretta) un sostanziale accordo (non significa reciproca subordinazione) sugli obiettivi della vita in comune. L’ho presa su larga per arrivare al chiacchierato punto dolente degli accordi (qualcuno li ha brutalmente ridefiniti contratti) in vista della formazione di un governo.

Tutti giustamente dicono, anche se molti poi fanno sistematicamente il contrario, che prima delle formule, delle combinazioni, degli schieramenti dovrebbero venire i contenuti di un programma: metodologia ineccepibile in tutti i campi e a tutti i livelli, compresa la politica e la gestione del Paese in tutte le sue articolazioni.

In questi giorni si parla insistentemente di individuazione di pochi e precisi punti programmatici su cui costruire accordi, possibilmente duraturi di governo. Non sono certo favorevole ai programmi sbrodolatamente onnicomprensivi che finiscono con l’essere libri dei sogni. Non accetto però nemmeno la lapidaria individuazione di obiettivi civetta, come sta avvenendo per l’eliminazione della legge Fornero (sta per pensioni più facili e più alte), per l’abbassamento delle tasse (fino alla cosiddetta tassa piatta, ossia proporzionale sui redditi), per il contenimento dei migranti (mandare a casa chi non è un rifugiato e ancor prima possibilmente bloccarlo all’ingresso), per dare un lavoro a tutti (ai giovani in particolare), per garantire mezzi minimi di sostentamento a tutti (si chiami reddito di cittadinanza, di inclusione, di assistenza o roba del genere).

Se non si va giù una mano di vanga, tutto è bello e possibile, ma illusorio, e quindi un governo costruito su simili fondamenta al primo ostacolo o inconveniente è destinato a crollare miseramente. Ma ammettiamo pure che si riesca a sviscerare alcuni punti programmatici ed a fissarne precise connotazioni e compatibilità, l’azione di governo non finisce lì, c’è tutto il largo spettro degli impegni ulteriori, ci sono tutte le novità emergenti dall’evoluzione e involuzione delle situazioni interne ed internazionali, c’è il quotidiano che non è mai solo ordinaria amministrazione, ma soluzione di problemi nel momento in cui assumono contorni variegati, mutevoli e particolari. Per tornare alla similitudine matrimoniale, dopo aver deciso di vivere in una città può succedere che cambino le esigenze familiari e/o quelle professionali in modo tale da imporre di ripensare la residenza se non addirittura la convivenza. Si può decidere in linea di massima di non avere figli, ma se poi, per caso, arrivano, cosa si fa? Si abortisce o si cambia l’approccio al tema della fecondità matrimoniale? In poche parole, dopo aver stilato un programma di massima o di minima, bisogna affrontare la vita in comune che non smette mai di riservare sorprese e novità.

Tornando ancora al discorso governativo, oltre e prima “dell’dem programmare” ci dovrebbe essere un “idem sentire”, vale a dire una comunanza, almeno relativa, di valori e di idee, tali da garantire un minimo comune denominatore. Sinceramente non intravedo niente di ciò facendo un’analisi obiettiva delle forze politiche italiane attualmente in campo. Non esiste nemmeno la base di partenza, la concezione politico-istituzionale su cui e da cui prendere le mosse: si potrebbe quindi anche decidere insieme di comune accordo di andare a Milano, ma sul mezzo di trasporto da utilizzare, sull’orario di partenza e di arrivo, se viaggiare in prima o seconda classe, su come utilizzare il tempo di percorrenza e cose di questo genere casca immediatamente l’asino. I tre raggruppamenti in campo non hanno un concetto comune di democrazia, di solidarietà, di giustizia, di libertà: cosa possono programmare insieme? È pur vero che la politica è l’arte del possibile, ma non è la ricerca dell’impossibile!