Le mosse degli asini e dei cavalli

Siamo alla seconda manche delle consultazioni al Quirinale. La pausa di riflessione sembra non aver giovato alla ricerca della quadra fra le forze politiche ritenute vincitrici della recente consultazione elettorale: ognuno vuol essere più vincitore degli altri, tutti vogliono cambiare tutto e si è scatenato la corsa a chi è più rivoluzionario, tutti rivendicano la leadership del futuro governo, resta aperta la questione se sia più importante e basilare il 31% del M5S o il 37% della coalizione di centro-destra, la Lega discrimina il PD, i pentastellati discriminano la berlusconiana Forza Italia e puntano a spaccare il PD al quale peraltro propongono di aprire un dialogo.

Dire che la situazione sia incartata è dire poco. Tutti chiedono tempo, sperando che si smussino gli angoli e si possa arrivare per reciproco sfinimento ad una soluzione. Tutte le combinazioni politiche sembrano impossibili ed allora si comincia a profilare un governo, variamente definito, che prescinda in parte dai rapporti di forza e consenta di guadagnare tempo e governabilità in vista di prossime elezioni alquanto ravvicinate: governo a termine, di tregua, di transizione, del presidente, istituzionale, tecnico, balneare, della non sfiducia, delle astensioni, etc.  etc.

Sarebbe un governo presieduto da una figura terza rispetto agli esponenti di partito, capace di gestire i nodi più urgenti, in grado di colmare pericolosi vuoti di potere, sufficiente per mantenere una presenza attiva negli organismi europei ed internazionali. Questa eventualità capovolgerebbe le strategie e le tattiche: il M5S, che vuole dividere gli altri, probabilmente si dividerebbe al proprio interno; la Lega che vuole egemonizzare il centro-destra si troverebbe spiazzata da Forza Italia; il PD propenso ad un periodo rigenerante di opposizione verrebbe messo alla punta; i vincitori si chiamerebbero fuori in tutto o in parte, mentre i perdenti tornerebbero a galla. Berlusconi, sempre più patetico nel suo protagonismo d’accatto, per la terza volta sosterrebbe un governo non suo (successe con Dini e con Monti), ma si consolerebbe per la situazione di relativa calma verso l’Europa, i mercati e l’economia, che gioverebbe non poco agli affari delle sue aziende (sono sempre state il vero obiettivo della sua azione politica). Il PD vedrebbe rivalutata la sua esperienza governativa e superato il suo splendido isolamento. Gli elettori farebbero ammenda, non piangerebbero sul latte versato e magari si prepareranno a versarne ancora di più, vagheggiano ulteriori follie da sfogare nelle urne.

Devo ammettere di ritenere questa prospettiva, fra le tante, quella meno invasiva e più seria. Non so se Sergio Mattarella avrà il coraggio di sparigliare i giochi fino a questo punto, se prenderà in contropiede tutti con una mossa del cavallo prevalente su quelle degli asini, se troverà corrispondenza negli interlocutori europei e stranieri, se avrà un certo consenso dalle forze economiche e sociali. Rispetto al 2011, anno del governo tecnico varato da Napolitano, le situazioni sono cambiate anche se una certa qual somiglianza ci può anche stare. L’unico serio rischio potrebbe essere quello di incallire ulteriormente l’elettorato in una opzione anti-establishment e quindi di traghettare il sistema politico italiano verso un bipartitismo imperfetto dell’anti-sistema. È vero che le elezioni dovrebbero essere una extrema ratio da evitare o almeno da praticare dopo averle provate tutte, ma prima o poi alle elezioni bisognerà tornare, dopo che i demagoghi avranno soffiato sul fuoco e i problemi finiranno con essere responsabilità di chi ha governato senza un preciso mandato elettorale. Mattarella e i suoi consiglieri sapranno valutare questi rischi e decidere per il meglio.