L’ago della Resistenza nel pagliaio della politica

Quando ero impegnato concretamente in politica, a livello, seppure modesto, di partito e/o istituzionale, in occasione della celebrazione della festa della Liberazione, esprimevo tutta la mia forte sensibilità partecipando alle manifestazioni pubbliche unitarie, promosse da forze politiche diverse, accomunate dal richiamo ai valori della Resistenza, della lotta partigiana, dell’antifascismo. Da quando ho abbandonato l’impegno politico attivo, pur rimanendo sempre attento e partecipe rispetto alle vicende politiche, preferisco approfittare della ricorrenza del XXV aprile per approfondire e riflettere in senso culturale sui valori della democrazia alla luce dell’educazione ricevuta al riguardo. Lo faccio anche oggi, con un forte richiamo a due miei imprescindibili riferimenti familiari: mio padre Ernesto e mio zio Ennio sacerdote.

Di mio padre voglio ricordare gli insegnamenti, che ho peraltro riportato in due pubblicazioni contenute nel sito internet, impartiti quando in ancora tenera età gli chiedevo di spiegarmi cosa fosse stato il fascismo. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: d’altra parte era nato e vissuto in oltretorrente (come del resto anch’io e  ne vado orgoglioso), il rione dove si respirava la politica, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.

Mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto), il quale era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!” Lo stesso popolano dell’oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva papà, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta.

Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così).

Ascoltavo ancora bambino questi racconti, per me quasi immaginari, ma tutt’altro che fantasiosi. Nell’osteria a due passi dalla casa della mia fanciullezza, si raccoglievano firme per una petizione di carattere politico: fecero firmare anche un ingenuo e sordo amico con l’illusione di sottoscrivere una richiesta di rimozione per un fetido e puzzolente vespasiano della zona. Per fortuna l’iniziativa non creò grane, ma l’oltretorrente era questo: genio e sregolatezza, musica e politica, risate, ma all’occorrenza…….

Il secondo riferimento riguarda le scelte di vita di mio zio Ennio sacerdote, il mio santo protettore. Partecipò, come convinto assistente-scout, al movimento delle aquile randagie, un’associazione cattolica segreta, che fece dell’antifascismo la propria coraggiosa cifra di testimonianza e comportamento. Si impegnò in operazioni delicatissime e rischiosissime di scambio fra prigionieri: i partigiani si fidavano ciecamente di lui e lo portarono in trionfo il XXV aprile del 1945; nascose ebrei mettendo a repentaglio la propria vita; fu addirittura arrestato e dovette trangugiare alcuni bigliettini compromettenti; il vescovo gli consigliò prudenza, ma don Ennio prima della prudenza metteva il coraggio della testimonianza. Non ho avuto la possibilità di conoscerlo, in quanto morì, ancora giovane, di un male tremendo pochi giorni prima della mia nascita.

Mi bastano questi ricordi per onorare quanti hanno resistito al fascismo, combattuto per la libertà e contro l’invasore. Il ricordo dovrebbe farsi politica viva: successe nel dopo-guerra con il patto costituzionale. Poi via via ci siamo un po’ tutti dimenticati della lezione resistenziale ed oggi effettivamente si fa molta fatica a ritrovare quello spirito nella battaglia politica. È il caso di provare comunque a rinverdire i valori e le scelte resistenziali. Sull’antifascismo non si può scherzare, anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna, rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre)  “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.