I cocci alla vetrata

Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc.): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “.  Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferì’ rispondere alla sua maniera: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta! “.

Questo succedeva nel 1958, ma dieci anni prima molti italiani si posero il problema e preferirono non rischiare la Russia del diritto di voto ed esercitarono il diritto di voto in senso garantista, vale a dire per non tornare indietro rischiando di andare troppo avanti: scelsero di affidare il Paese alla Democrazia Cristiana, in quanto partito che segnava l’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale, all’area democratica e prometteva seriamente e credibilmente  il rispetto assoluto delle libertà conquistate dopo la caduta del fascismo. Dall’altra parte, Pci e Psi uniti in una folle alleanza di sinistra (al Pci non conveniva svenarsi per aiutare i socialisti, al Psi non faceva gioco appiattirsi politicamente sulla discutibilissima e pericolosissima strategia comunista) vennero sonoramente e storicamente sconfitti, in quanto portatori di una visione avventuristica del futuro dell’Italia.

Non voglio celebrare l’anniversario delle elezioni del 18 aprile 1948, anche se la storia meriterebbe di essere rivisitata con attenzione, ma fare un triste parallelo tra la prova di maturità degli italiani nel lontano 1948 e la performance dello scorso quattro marzo in cui gli elettori hanno dimostrato, a dir poco, una certa avventatezza, che a distanza di quaranta giorni sta già dando frutti negativi in termini di governabilità del Paese e affidabilità delle sue istituzioni. Non si può votare sull’onda emotiva dell’antipolitica o della protesta populista.

In data odierna il Capo dello Stato ha conferito un mandato esplorativo alla Presidente del Senato per verifica ed approfondire le possibilità di un accordo programmatico di governo tra il centro-destra e il M5S, le forze politiche uscite premiate dallo sconclusionato voto di marzo. Qualcuno fa risalire la situazione di stallo alla legge elettorale, sostanzialmente proporzionale, che ha creato i presupposti per un tripolarismo inconcludente e paralizzante. Certo il vigente sistema elettorale non è un toccasana per la nostra politica, ma anche nel 1948 vigeva un proporzionalismo addirittura puro e ciononostante i cittadini italiani seppero scegliere e dare la forza necessaria per innescare una governabilità basata sulla DC, che ebbe la lungimiranza di non chiudersi a riccio sugli allori, ma di scegliere la collaborazione con i partiti minori compatibili con la sua visione. La politica quindi non si risolve con le regole e queste non vengono prima della politica, ma dovrebbe essere l’esatto contrario.

Staremo a vedere cosa appurerà il Presidente del Senato di recente nomina: penso sia un passaggio obbligato, ma non risolutivo. Ci vorrà del bello e del buono per uscire indenni dal disastro combinato dagli italiani nelle urne. Abbiamo rotto senza pagare e ci illudiamo che i cocci siano di Mattarella. Anche le forze politiche hanno fatto di tutto per fuorviare gli elettori insinuando esagerate paure, infondate promesse e facili illusioni, ma alle elezioni bisogna che chi vota abbia capacità critica e buon senso, ciò che gli italiani sembrano avere smarrito.