Gli “apericena” della crisi

Nel maggio del 2009 il finanziere americano Zachary Karabell (come riporta Federico Rampini nel suo libro “Le dieci cose che non saranno più le stesse”) lanciava questa domanda provocatoria sulle colonne del settimanale “Newsweek”: «Se siamo vicini a una Grande Depressione, perché tutti i bar che frequento a New York e Dallas sono pieni di giovanotti che prima della cena si scolano Martini-cocktail da 17 dollari l’uno?».

Nel gennaio del 2018 Ennio Mora, un semplice e modesto laureato in economia, lancia una domanda analoga e ugualmente provocatoria dal suo sito internet: «Se siamo in crisi e manca il lavoro soprattutto per i giovani, perché i bar di Parma (come penso delle altre città italiane) sono pieni di giovani alle prese con i cosiddetti “apericena”, che non so quanto costino, ma certamente non poco?».

Il discorso si potrebbe allargare agli ingorghi di traffico per i ponti delle festività natalizie, alle presenze negli alberghi e sugli impianti sciistici, alle città spopolate dall’esodo festaiolo, etc. etc.

Io li chiamo i “misteri della crisi”: da una parte si piange miseria e dall’altra si ostenta ricchezza. Forse che aveva ragione Berlusconi quando esorcizzava e giubilava le difficoltà economiche con  i ristoranti pieni in cui non si riesce neppure ad entrare?

Nella nostra società la crisi economica fortunatamente non si ripercuote immediatamente e tragicamente sulle persone, grazie alle protezioni sociali, grazie agli ammortizzatori pubblici e privati, grazie alle riserve accumulate negli anni positivi. Sul caso della spensieratezza dei giovani italiani influisce molto l’appoggio economico di genitori e nonni, i quali foraggiano i bamboccioni di turno (non so fino a quando…). Non è un caso che il presidente Mattarella nel suo saluto augurale per il 2018 abbia fatto un vero e proprio appello al senso di responsabilità dei giovani ed alla loro partecipazione al prossimo voto elettorale.

Temo che, al di là di tutto, il tasso di crescita e sviluppo della nostra società sia fortemente condizionato dal tasso di irresponsabilità di molta gente: la nostra società ha accumulato molti torti nei confronti delle nuove generazioni e probabilmente se li vuole far perdonare, consentendo ai giovani di vivacchiare bene (poco studio, molto divertimento, insensata spensieratezza) in attesa di tempi migliori.

Una seconda osservazione riguarda la stratificazione sociale in atto: si allarga sempre più la distanza tra i ceti abbienti, peraltro in calo numerico, ed i ceti più disagiati, peraltro in crescita numerica. La società nel suo modo di vivere viene tarata sui primi e i secondi sono probabilmente sempre più invisibilmente emarginati e affatto rappresentati.

Tornando ai giovani, tra i tanti errori commessi a livello educativo nei loro confronti, vi è sicuramente quello di non avere trasmesso il senso del dovere e del lavoro. Conversando con amici e parenti spesso mi ritrovo a criticare i nostri genitori per la severità con cui ci formarono: “non ci hanno lasciato godere la nostra giovinezza”, diciamo con un pizzico di rimpianto. In parte è vero, ma avevano ragione: la vita non è un divertimento, ma un impegno. È il concetto che a molti giovani odierni manca: chi lo chiama provocatoriamente bamboccionismo, chi lo definisce fuga dalla realtà, chi spera in una automatica e improvvisa maturazione intellettuale.

Mio padre aveva un suo modo di rapportarsi coi giovani, non era assolutamente implacabile nelle critiche verso di loro, ma non gliele risparmiava: intendeva ricondurli al senso di responsabilità, senza inutili accanimenti più o meno terapeutici. Di fronte a certe intemperanze giovanili, tipicamente maschili, non si scandalizzava, ma era solito commentare: «Quand al gh’arà la moróza, chil robi chi al ne j a fà pu…». Una bella fiducia nel ruolo della donna, alla faccia dei maschilismi di ieri e di oggi.