Le sciarade politiche

“Mi chiedo se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a fascismo finito, non sia un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per veicolare il dissenso”: così scriveva, nella sua spietata lucidità, Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia.

Ebbene Matteo Salvini sull’antifascismo dice di pensarla come Pasolini. A parte la comoda e scorretta estrazione di una frase dal contesto ampio di un ragionamento provocatoriamente articolato e complesso, a parte la strumentale trasposizione nel tempo di un giudizio legato ad un certo periodo storico, a parte la differenza incolmabile fra questi due personaggi, a parte il fatto che Pasolini contestava un certo antifascismo in senso antifascista e non in chiave revisionista, ho provato anch’io (scorrettezza per scorrettezza) a fare un esercizio politico-lessicale, sostituendo alcune parole nella frase presa a riferimento dal leader (?) leghista, in un curioso copia incolla quasi demenziale, ma, tutto sommato, significativo.

“Mi chiedo se questo razzismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a razzismo finito, non sia un’arma di distrazione che la destra populista usa sulla gente per veicolare la paura”: questa parafrasi pasoliniana ci starebbe a pennello. Non si può infatti sostenere che nel 2018 l’antifascismo sia una finta battaglia per poi cavalcare a più non posso tutti gli “ismi”, che del fascismo furono elementi costitutivi e alimentativi: razzismo, populismo, nazionalismo etc.

Non è possibile e non ha senso sostenere, come fa Salvini, che “l’antifascismo del 2018 sia la battaglia di una sinistra che parla di passato perché non ha un’idea di futuro”, quando il passato riverbera spaventosamente i propri fantasmi su un presente pieno di incognite e rischia di proiettarsi in un futuro angosciante e ripetitivo.

Che la sinistra faccia una certa fatica a coniugare passato, presente e futuro è la sacrosanta verità, ma ciò non avviene per lo stucchevole richiamo ai valori dell’antifascismo, ma per l’incapacità di tradurli in una visione avanzata e moderna. L’antifascismo non è una pagina scolorita e logora da voltare, è ancora un’imprescindibile risorsa valoriale a cui attingere e da cui partire.

Che la lezione storica su fascismo e antifascismo debba venire da Matteo Salvini, un demagogo passato per caso nel nostro Paese e financo nel suo partito, è il massimo. D’altra parte l’attuale fase politica italiana, e non solo italiana, è caratterizzata dalle lezioni impartite da nani a un’opinione pubblica smemorata e ballerina. Berlusconi fa il verso a De Gasperi (europeismo), Salvini a Pasolini (antifascismo), Di Maio a Berlinguer (questione morale). Seguendo i bei programmi di Rai storia mi viene continuamente spontaneo fare un parallelismo fra i personaggi politici del passato e quelli attuali: un esercizio accademico, ma istruttivo. Stiamo facendo la vignetta alla politica.

Pensiamo alla sbandierata battaglia moralizzatrice grillina. Questi simpatici (?) amici si ritrovano con liste piene di voltagabbana, di profittatori e di massoni: non hanno capito come la democrazia sia una conquista lenta e faticosa, che non può essere improvvista con un clic su internet. Così come Salvini non ha capito che sull’antifascismo non si può scherzare e che tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna si rischia grosso, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “. Cosa abbia o non abbia capito Berlusconi, non l’ho mai capito (la ripetizione è voluta); di una cosa sono certo: ha ben presenti i suoi interessi privati e li vuole camuffare da interessi pubblici. In conclusione siamo in balia di molte trappole e continuiamo a caderci dentro.