In piazza…ma per dialogare

Non ho capito se i moti di piazza che stanno scoppiando in varie città italiane ad opera di gruppi e frange giovanili siano una reazione impulsiva ai rigurgiti fascisti, siano una protesta sociale per i tanti problemi irrisolti, siano una ribellione totale verso la società: forse di tutto un po’, un pericoloso mix riveduto e scorretto che la storia ci riconsegna. Provo ad esaminare criticamente le tre suddette ipotesi.

Combattere il risorgente e stupido sentimento fascista scatenando la violenza che arriva a sfogarsi contro le forze dell’ordine sembra un ingenuo ma colpevole errore da tutti i punti di vista: cadere nella trappola di portare la rissa ideologica sulle piazze è sbagliato ed è il modo per mettere impropriamente fascismo ed antifascismo sullo stesso piano violento, riducendo la democrazia a mero scontro tra nostalgie di segno opposto.

La protesta di fronte alle palesi ingiustizie del nostro sistema e verso la politica che non riesce a interpretare le istanze giovanili non può scadere a questo livello di violenza gratuita: il ribellismo sociale, confusamente e genericamente inteso e praticato, non porta da nessuna parte, serve solo a esorcizzare il rinnovamento e a sprofondare ancor più la società nel qualunquismo populista.

La contestazione globale ha fatto il suo tempo ed ha combinato seri disastri illudendo, rovinando e deviando le ansie giovanili sul terreno del terrorismo fine a se stesso. Quindi non serve indulgenza, ma precisa ed inequivocabile condanna verso atteggiamenti e comportamenti inammissibili ed inaccettabili.

Detto questo i problemi rimangono: esiste una risorgente simpatia per le scorciatoie nazifasciste davanti alle quali non so se la nostra democrazia sia attrezzata culturalmente  e politicamente a fare il doveroso argine; la politica fa molta fatica a interpretare le ansie di rinnovamento ed è più portata ad alimentare e cavalcare le paure e le sfiducie; le nuove generazioni oscillano fra l’apatia e la violenza e non trovano riscontri positivi sul piano sociale e politico.

Torno col pensiero alla mia giovinezza: anche allora i problemi non mancavano, anzi erano maggiori di quelli attuali. Tuttavia la politica, seppure imprigionata nel gioco ideologico, riusciva a scaldare i cuori; la protesta, seppure presuntuosamente globalizzata, aveva un senso culturale; il dialogo politico, seppure condizionato dagli schieramenti politici, sapeva allargarsi e volare alto. Le degenerazioni ci furono e ne soffriamo ancor oggi le tristi conseguenze. Nella mia classe si discuteva della guerra nel Vietnam, del rapporto tra cattolici e comunisti, di una scuola aperta al mondo, di pace e giustizia, di valori divisivi e condivisibili.

Il mondo è cambiato: stiamo meglio dal punto di vista economico, ma siamo a terra dal punto di vista culturale. Siccome la cultura non è erudizione, ma capacità di porsi di fronte alla realtà, siamo in gravissime difficoltà. In passato la violenza diventò lo sbocco politico di una cultura impazzita, oggi rischia di rappresentare lo sfogo antipolitico di una cultura inesistente. Togliamo di mezzo quindi ogni e qualsiasi tentazione violenta, rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo a discutere e dialogare, a riscoprire la piazza come luogo di incontro culturale e non di scontro politico.