Quando da bambino mi appassionavo al calcio, sotto l’attenta e saggia supervisione paterna, non esistevano le TV a pagamento, la RAI, unica emittente, trasmetteva qualche partita, difficilmente in diretta, non c’era il rischio dell’attuale sbornia televisiva con le telecamere a scrutare ed a moviolare ad libitum, non esistevano i salotti televisivi pre, durante e post partita, di cronista c’era Nicolò Carosio e poco più, ben lontani dalle attuali schiere di giornalisti, commentatori tecnici, esperti, moviolisti, combinati in polpettoni stomachevoli che alla fine riescono a falsare l’avvenimento (altro che i quasi goal di Carosio). Scusate se insisto, ma è l’occasione per pulirmi un po’ in bocca, per ridicolizzare quanto succede in TV durante un incontro di calcio: un gruppo di giornalisti ed esperti nello studio centrale, un duetto per il pre-partita, un duetto per la cronaca, con altri due cronisti a commentare le inutili urla degli allenatori, una equipe per commenti e interviste durante l’intervallo ed alla fine. A parte il costo di tali sovrastrutture, che qualcuno direttamente o indirettamente paga (canone, pubblicità, etc), non so fino a quando, il povero telespettatore al termine fa una certa fatica a ricordare il risultato dell’incontro, stordito dalla sarabanda di commenti, immagini (replay che si sovrappongono alla diretta), critiche, schemi di gioco, interviste, pareri, etc. etc.
Ebbene, nel periodo oggetto dei miei ricordi la culla del calcio era lo stadio, la sede naturale ed unica era il terreno di gioco circondato dalle gradinate più o meno gremite di pubblico. Calcio e stadio: il binomio entro cui si svolgeva l’avvenimento agonistico, con i due fronti contrapposti di protagonisti , i giocatori da un lato il pubblico dall’altro. Tutte le altre, a mio giudizio, sono interferenze più o meno fastidiose (dagli spot pubblicitari in giù).
Ragion per cui mi fa letteralmente “sbudellare” dal ridere lo sciopero indetto dai giornalisti sportivi della Rai in segno di protesta contro le scelte programmatiche troppo “risparmiose” della televisione pubblica in materia sportiva.
Di sport, di calcio in particolare, nei palinsesti Rai ce n’è fin troppo, ma se proprio desideriamo allargare le dirette televisive pagandone il caro prezzo, consiglierei di contenere al massimo i costi dei “chiacchieroni” per poter spendere di più trasmettendo gli avvenimenti più importanti e spettacolari.
L’altra sera, in conseguenza dello sciopero, il derby calcistico torinese di Coppa Italia è andato in onda senza telecronaca e commenti: mi sono divertito moltissimo, mi sembrava di vivere nel mondo dei sogni, finalmente un po’ di silenzio per lasciar parlare il pallone. Fossi il direttore generale della Rai non esiterei a sfoltire l’inutile e fastidioso esercito dei commentatori e proporrei loro di stornare i fondi dal ridondante pool sportivo per impiegarli all’acquisto dei diritti televisivi.
I giornalisti a quel punto si sarebbero fatti un autogol clamoroso: gli utenti Rai tirerebbero un respiro di sollievo e avrebbero qualche occasione in più per seguire lo sport e non le chiacchiere sportive. Non sarà così, vinceranno loro, i pupattoli catodici del pallone e noi continueremo a guardare gli avvenimenti sportivi più con le orecchie che con gli occhi.
Mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio, esclamava ingenuamente: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. E che i giornalisti sportivi andassero tutti a quel paese, lontano da quello dei balocchi in cui vivono.