Tempo di inaugurazione delle stagioni liriche. Dopo la Scala, il Comunale di Roma e via via gli altri teatri d’opera apriranno i loro battenti operistici. Seguo questi avvenimenti a distanza e con grande nostalgia per il periodo in cui ero immerso a doppio titolo, di appassionato e di modesto addetto ai lavori, nella vita del teatro Regio di Parma.
Sono passati ben trent’anni da allora, ma le anomalie sono rimaste, anzi si sono fatte ancor più fastidiose ed eclatanti: mi riferisco all’attenzione mondana verso l’evento e alla sua caratterizzazione culturale in chiave teatralmente esteriore.
Innanzitutto per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto. Si ricordava infatti dei salti mortali per entrare al Regio, quando la povertà non gli consentiva il regolare biglietto e bizoggnava arrangiarsi per non privarsi della impagabile soddisfazione dell’opera lirica. Una sera davano un’opera diretta dal concittadino maestro Podestà. Si misero in due ad aspettarlo davanti all’entrata del palcoscenico, in largo anticipo sull’orario normale (gli artisti sono in teatro un’ora prima dello spettacolo), per chiedergli se avesse potuto farli entrare assieme a lui per poi sgattaiolare in sala e sistemarsi in qualche modo. Dopo aver capito che si trattava di veri appassionati che non avevano effettivamente la possibilità di pagare l’ingresso, acconsentì con la promessa che non sarebbero rimasti in palcoscenico, cosa assolutamente vietata, e avrebbero trovato una soluzione accettabile. Si accodarono al maestro e fecero per entrare, ma il controllore chiese: «Méstor, chi éni chi du chi?». «Lasa pasär, j én con mi…». Fin qui tutto bene, ma altri capirono l’antifona e si intrufolarono. «Anca chilù?» chiese l’inserviente. «Sì» rispose il maestro. E la storia si ripetè per altri. Ad un certo punto l’addetto alla portineria chiese spazientito: «Méstor…». Podestà non gli fece neanche finire la domanda e gli rispose senza possibilità di appello: «Mo sì, tutti…». Conosceva la passione dei suoi concittadini e la loro povertà.
Poi viene lo strapotere di scenografi, costumisti, registi, i quali oltre disturbare e/o travisare le opere liriche, impongono l’attenzione mediatica sul loro operato distraendola dai contenuti musicali, vocali ed interpretativi. Quando si parla o si scrive della rappresentazione di un’opera lirica, si fanno commenti a non finire sulla operazione registica, si dedicano due misere e scarne parole al direttore d’orchestra, all’orchestra stessa, al coro ed a chi lo dirige ed a volte si dimentica persino di citare i cantanti, come se fossero un elemento di puro contorno.
Voltiamo quindi pagina arrivando alla seconda anomalia, sempre nell’ambito dell’opera lirica in teatro: le scenografie e le regie d’avanguardia, le messe in scena antitradizionali ecc. ecc… Mio padre era drasticamente contrario a queste innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo, anche se ammetto non avesse tutti i torti. Cito un episodio significativo in tal senso. Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “ Mo indò éla?” gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione: almeno un po’, sì! E negli anni le cose sono assai peggiorate e diventate al riguardo sempre più insopportabili.
La Dannazione di Faust con cui ha aperto il teatro Comunale di Roma passerà alla storia per le mise di Virginia Raggi e Maria Elena Boschi. Chi dirigeva l’orchestra? Chi cantava? Inutili curiosità da melomani.
L’Andrea Chenier della Scala verrà ricordata per la messa in scena di Martone, peraltro almeno accettabile e che ha rispettato il dramma lasciandolo nella storia della rivoluzione francese e non ha trasferito l’ambientazione, che so io, nella Resistenza al nazifascismo. Per fortuna direttore e cantanti erano sufficientemente bravi per imporsi all’attenzione e per costringere tutti a capire che oltre i cambi girevoli di scena c’erano anche arie e duetti di rara intensità teatrale oltre che musicale.
Un’anziana appassionata di opera lirica per sapere come era andata la recita chiedeva: «Ani fat gnir i zgrizór?». Intendeva andare al nocciolo della questione. Non si interessava certo ai personaggi di spicco presenti nel foyer, né alle caratteristiche della messa in scena, ma alle emozioni forti offerte dagli interpreti, che imprimono ed esprimono la vera cifra dello spettacolo.