Scriveva Alberto Moravia: «Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che, ogni tanto, i pescatori tirano fuori dal mare, …tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale». Un altro scrittore, padre D. M. Turoldo, dal versante cristiano, mette a fuoco la stanchezza dei nostri Natali, lo stress, la mancanza del futuro e di bambini: «Siamo tutti stanchi; tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi e pieni di paure! Il solo bambino delle nostre case di questi giorni saresti tu, Gesù, ma sei un bambino di gesso! Nulla di più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno».
Mi riconosco in queste autorevoli definizioni del Natale: in me prevale la tristezza delle occasioni perdute associata alla pigrizia ed alla stanchezza per tentare il ripristino del vero Natale. Ecco perché, tra l’altro, non sopporto il rito degli auguri (anche se spesso ci vengo tirato dentro per i capelli), che è la consacrazione del finto Natale, quello irriconoscibile e fasullo che ci siamo costruiti. Sono passati duemila anni e del coraggioso “fiat” di Maria non è rimasto nulla, nonostante quel “fiat” abbia avuto un seguito a Betlemme, ma soprattuto sul Golgota dove tutto è stato compiuto.
Quante volte abbiamo sentito affermare che per celebrare il Natale occorrerebbe essere felici e spensierati: è la più grossa fandonia che si possa dire. La nascita di Gesù ha comportato enormi e drammatici problemi: per sua madre Maria in odore di lapidazione, per Giuseppe in odore di colossale presa in giro, per i pastori in odore di falsa illusione, per i magi in odore di scientistico abbaglio…
Il Natale ci mette in discussione e scopre tutte le nostre magagne ed è per questo che mi prende una grande tristezza: non ho il coraggio pazzesco di Maria, non ho l’umiltà profonda di Giuseppe, non ho la sincerità trasgressiva dei pastori, non ho la testarda perseveranza dei Magi. Sono solo con le mie paure.
Mi viene in soccorso l’indimenticabile amico sacerdote Luciano Scaccaglia, che affermava: «Nel Natale tutti sono inclusi, tutti hanno il diritto di esserci, tutti hanno diritto a un pezzo di pane, di speranza e di accoglienza, tutti sono a diritto nel presepe: il tossico e la prostituta, chi ha perso fiducia, chi è in carcere, chi prende continuamente porte in faccia o è messo da parte, le coppie “regolari” e le coppie “di fatto”, l’omosessuale che si sente discriminato ed emarginato e guardato con sospetto e l’eterosessuale che cerca faticosamente di imparare ad amare, magari sbagliando i percorsi, lo straniero, come i magi, con la loro religiosità aperta alla ricerca, i credenti non sazi né sicuri nei loro “punti fermi”, ma sempre in cammino un po’ a tentoni, i poco credenti con l’insoddisfazione per i vuoti che trovano in sé, gli atei non “devoti” al loro clericalismo, ma perché atei più per disperazione che per convinzione, poiché la loro onesta ricerca è finita in “sentieri interrotti”… Tutti possono tornare a casa lasciando risuonare la parola più bella che risuona a Natale: “Non temete!”, perché Dio abita la nostra debolezza e non è assente per nessuno».