Un tempo i comunisti, quasi con fastidio, lo chiamavano sottoproletariato, oggi le chiamiamo periferie degli esclusi, ma il concetto è sempre lo stesso: gente emarginata da tutti i punti di vista, che non riesce purtroppo a individuare una qualsiasi forma positiva di riscatto e quindi si affida a ricette di stampo neofascista e di carattere mafioso. Si illudono di trovare nella sgangherata nostalgia di un passato nefasto una risposta forte e violenta alla loro miseria e di ottenere dal (dis)ordine mafioso un minimo di protezione per sopravvivere.
La combinazione tra estremismo fascista e mafia non sorprende anche se preoccupa soprattutto per l’ampio consenso che la criminale miscela ottiene dalla gente senza speranza: bisogna proprio essere disperati per buttarsi su Casa Pound, ma certe persone lo sono e si buttano.
Questi fenomeni di devianza socio-politica si combattono con l’azione delle istituzioni e con il recupero della politica. Bisogna cioè dare a tali soggetti, che si crogiolano nell’emarginazione, un segnale di attenzione positiva. La criminalizzazione deve essere fatta su chi strumentalizza queste fasce di popolazione e non su chi viene strumentalizzato.
Anche la descrizione del fenomeno non deve assolutamente assumere il tono della pedante squalifica, perché, così facendo, si ottiene l’effetto contrario, vittimizzando coloro che mestano nel torbido e molestando chi si sente fuori dai giochi. L’attuale vizio della stampa e dei media consiste proprio nella petulante azione di denuncia fine a se stessa, talmente sbrigativa da innervosire tutti e da creare un clima di rissa totale.
La violenta reazione del mafio-fascista di Ostia nei confronti di operatori mediatici si inquadra in questo brutto contesto. Dico la verità: anziché scandalizzarmi, piangere sul naso rotto, strapparmi le vesti, di fronte alla testata inferta al giornalista Rai ho riflettuto. La cosa è gravissima sul piano politico, suscita pessimi ricordi, dimostra a quale punto di insulsa violenza siamo arrivati nell’imbarbarimento dei rapporti sociali. Ma la gente del quartiere stava e sta dalla parte di Roberto Spada e della sua testa di legno (o di…): è questo che deve far pensare e non bastano le solite tiritere quale risposta seria ad una situazione drammatica.
Ricordo quando da presidente del consiglio di quartiere andai a incontrare gli abitanti del cosiddetto “palazzone del Negus”: un ghetto vero e proprio. Non mi accolsero con rose e fiori, mi coprirono con i loro coloriti racconti di vita grama, ci volle solo il paziente e coraggioso carisma di Mario Tommasini a calmarli, a farli ragionare, a “politicizzarli” in senso positivo. Una giovane donna, esasperata dall’andazzo della vita in quel lugubre palazzone, non si stancava di ripetere che dalle finestre piovevano boccali di escrementi umani: a suo modo rendeva perfettamente l’idea.
La strada è questa, tutta in salita. Anche allora la sinistra faceva fatica ad entrare in quei ghetti, molto più difficili da affrontare rispetto alle fabbriche. Mario Tommasini riusciva a fare il capolavoro. Da lui ho imparato molto. Io, modestamente, rappresentavo una Istituzione: il quartiere che voleva dialogare con questa gente emarginata. Tommasini impersonificava la politica, che, fuori dagli schemi, tentava qualche risposta ai loro problemi. Virginia Raggi, se vuole tradurre il grillismo in una lingua concreta e positiva, non deve protestare (contro se stessa?), ma deve dialogare e fare qualcosa in quel di Roma. Ciò vale anche per gli altri. Per tutti. Il neofascismo e la mafia si combattono così.