Dopo essermi brillantemente diplomato in ragioneria, per cogliere l’acqua in tanto che correva e per rispondere alle esigenze economiche familiari, decisi di provare ad iniziare l’attività lavorativa cercando di combinarla con la prosecuzione degli studi a livello universitario. Ci provai con tutte le più buone intenzioni, agevolato dall’orario di lavoro continuato che mi consentiva di frequentare le lezioni mattutine o pomeridiane all’università.
Così feci anche quel mattino del febbraio 1969: verso mezzogiorno dovetti abbandonare l’aula di gran fretta per tornare a casa, mangiare un boccone in solitario e recarmi nel centro elaborazione dati della Barilla Spa dove assolvere al mio turno di lavoro pomeridiano (dalle tredici alle ventuno). Durante il breve e frugale pasto scoppiai a piangere: ero stressato da alcuni mesi di attività frenetica, avevo sommato il noviziato sul lavoro a quello universitario, ero stato costretto ad abbandonare le amicizie scolastiche, ero decisamente teso e cominciavo a dubitare seriamente di poter sostenere tali ritmi col rischio di interrompere gli studi o di allungarli in un interminabile e stiracchiato curriculum.
Mia madre, che mi aveva preparato il pasto, rimase abbastanza sorpresa, ma mi tranquillizzò sdrammatizzando la situazione pur capendo perfettamente le difficoltà del momento.
Non azzardò giudizi o consigli, riuscì con molta dolcezza a calmarmi, non approfondì le questioni, lasciandomi intuire di non voler interferire in decisioni che mi spettavano e per le quali ero in grado di vagliare tutti gli elementi in mio possesso, da quelli economici a quelli professionali, da quelli umani a quelli culturali.
Come mio solito optai per una decisione rapida, radicale, coraggiosa al limite dell’irresponsabile. Mi recai in ufficio, mi sedetti nell’anticamera del capo-centro, fui ricevuto da lui e rassegnai le dimissioni.
Ne parlai con mia madre che la accettò magari senza condividerla, la comunicò a mio padre che si rassegnò a lavorare alacremente per altri quattro anni, fece da cuscinetto rispettando la mia autonomia decisionale. Ricordo che non ritornò mai sull’argomento, non recriminò, non mi fece mai pesare il sacrificio conseguente alla decisione, continuò a contenere l’atteggiamento di mio padre, da quel giorno più intransigente, ebbe fiducia in me, senza se e senza ma. Per fortuna tutto andò per il meglio ed arrivai lestamente alla laurea anche per merito di mia madre, meravigliosa nella sua semplicità e riservatezza.
Perché ho ripreso questo raccontino ( vedi libro La tela di Lavinia in ricordo della vita di mia madre)? In esso credo vi sia la risposta al gran parlare sulle poche lauree e sul loro scarso livello qualitativo relativamente ai giovani italiani: in estrema sintesi, in pochi raggiungono la laurea, spesso sbagliano laurea rispetto alle loro capacità e alle aspettative del mercato del lavoro, altrettanto spesso alla laurea non corrisponde il giusto livello di preparazione.
Nella vita i risultati si ottengono con impegno e sofferenza: molti giovani prendono sotto gamba la scuola, in questo malauguratamente supportati dalle famiglie che tendono a difenderli anche in caso di profitto deficitario (gli insegnanti hanno sempre torto, le colpe sono sempre della scuola che non aiuta); la scelta a livello universitario viene fatta alla leggera, sovente sulla scia dei miraggi mediatici, prescindendo magari dalle proprie attitudini e soprattutto ignorando gli andamenti occupazionali (psicologi, sociologi, giornalisti etc., tutte facoltà inflazionate in conseguenza dell’appeal televisivo di queste professioni); l’impegno studentesco a livello di corsi di laurea è più goliardico che serio e le famiglie sopportano sacrifici non adeguatamente corrisposti (se avessi studiato con i ritmi e l’intensità di molti giovani odierni, mio padre non avrebbe esitato a tagliarmi i fondi e a mettermi di fronte alle mie responsabilità) .
Per onestà intellettuale bisogna ammettere che solo dopo aver confessato questi limiti e difetti si può parlare di carenze nella struttura scolastica e nella società, pur presenti e da rimuovere con adeguate riforme: non tutte le famiglie si possono infatti permettere di sostenere gli studi avanzati dei loro figli e l’università evidenzia parecchie lacune a livello didattico, scientifico ed organizzativo.
Poi in fondo al percorso arriva la doccia fredda della scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese o della domanda che non trova riscontro nella preparazione degli studenti: insomma il lavoro scarseggia e dove c’è non si è in grado di svolgerlo.
Non si può chiudere il discorso con la solita lamentazione: manca il lavoro per i giovani, governo ladro. Bisogna che tutti i protagonisti facciano bene la loro parte e la soffrano sulla propria pelle. A cominciare dagli studenti e dalle loro famiglie. A casa mia funzionò così. Altri tempi, si dirà. Altro spirito di sacrificio, aggiungo io.