Ricordo come alla fine degli anni sessanta, quando si fece insistente e consistente la prospettiva della istituzione delle Regioni, il dibattito fosse dominato dal timore che questa istituzione, peraltro prevista espressamente anche se un po’ sommariamente dalla Costituzione, potesse diventare il grimaldello per far saltare la serratura ermeticamente chiusa verso l’assunzione di responsabilità governative da parte del partito comunista, ancora piuttosto lontano dalla maturazione democratica e dallo sdoganamento politico.
Francesco De Martino, allora segretario del partito socialista, lanciò verso i paurosi anticomunisti una ironica rassicurazione, garantendo ad essi che i social-comunisti, in odore di maggioranza nelle regioni rosse, non avrebbero fatto la rivoluzione con l’esercito dei vigili urbani.
La rivoluzione in effetti non c’è stata in nessun senso, anche nell’auspicabile indirizzo della sburocratizzazione dello Stato e dell’avvicinamento dei cittadini alle istituzioni e viceversa. Dopo i primi anni dalla riforma, passato l’entusiasmo iniziale, le regioni poco a poco sono diventate dei carrozzoni politici e burocratici, tradendo la loro mission costituzionale e la loro portata democratica. Chi abbia avuto rapporti di qualsiasi tipo con le regioni si è reso conto perfettamente di questa realtà: veri e propri ministeri in balia di nuove corporazioni burocratiche, molto clientelari, con poca esperienza e preparazione professionale. Nelle regioni si trovano tutti i difetti dei ministeri e quasi nessun pregio: alla ingessatura si aggiungono infatti l’incompetenza e l’inaffidabilità.
Le singole regioni hanno messo del loro, ognuna ha seguito lo schema politico della maggioranza di governo: la Lombardia, ad esempio, ha svaccato il “pubblico” a favore del “privato”, l’Emilia-Romagna ha rigorosamente schematizzato il “sociale”, portandolo sì ad un interessante protagonismo, temperato però da un asfissiante irregimentazione di procedure e rapporti.
È arrivata poi la velleitaria spinta federalista ed autonomista della Lega nord, a cui ha fatto riscontro un’improvvisata accentuazione dei poteri regionali, varata in fretta e furia dal centro-sinistra, che ha creato solo confusione di competenze, sovrapposizione di funzioni, contenziosi tra poteri.
Il recente progetto di riforma costituzionale intendeva solo riportare alla ragione l’assetto regionalista, ma non ne ha avuto il tempo e il modo, con la solenne, pesante e viscerale bocciatura al referendum popolare.
Di questi tempi ha ripreso corpo la battaglia nordista tramite la promozione di referendum, che puntano sostanzialmente a far diventare tutte le regioni a statuto speciale con relativa autonomia fiscale.
I sindaci e i presidenti provinciali lombardi del Pd sono promotori di un Sì a questi referendum, che assomiglia più a un Nì, nel senso che vogliono ottenere ulteriori competenze e risorse senza cadere nel velleitarismo nordista della Lega e portando avanti dopo il referendum quanto sta facendo il governatore emiliano del Pd, Stefano Bonaccini, vale a dire giocando in contropiede, senza plebisciti, in aperto dialogo con il governo centrale, per ottenere maggiore autonomia e più libertà di spesa, accreditando l’Emilia-Romagna come esempio virtuoso di federalismo regionale.
Non vedo grandi idee al di là dell’invadente protagonismo di certi governatori al limite del populismo e oltre lo strumentale autonomismo riveduto e scorretto della destra filo-leghista. Non ho mai creduto molto nell’ordinamento regionale dello Stato italiano: troppo diversificate le aree geografiche, troppo contrastanti le esperienze storiche, troppo distanti le condizioni socio-economiche, troppo lontane le mentalità, troppo conflittuali le sensibilità politiche.
Checché se ne dica, una spinta eccessiva all’autonomia, consistente in deleghe di potere fondamentali e in autonomia fiscale tendente al 100%, rischia di minare il discorso dell’unità nazionale, di eliminare la solidarietà fra i territori, di creare paradossali o assurde discrasie nell’applicazione dei diritti dei cittadini.
Spero di sbagliarmi e di poter salutare, dopo l’ennesimo tira e molla tra spinte e contro-spinte, un assetto federale nuovo ed equilibrato che dia slancio e forza all’intero paese. Non vedo chi possa avere la necessaria lungimiranza al riguardo. Se dobbiamo fare l’ennesimo pasticcio moltiplicatore di burocrazia e sprechi, con l’aggiunta dello scontro tra egoismi regionali, meglio lasciar perdere. In un periodo di vacche magre nel consenso alla politica, aumentare il peso dei centri decisionali esistenti, mettendoli magari in conflitto fra di loro, mi sembra alquanto pericoloso. Cerchiamo di far funzionare al meglio quel che c’è. Preso per il giusto verso, il messaggio emergente dal referendum sulle riforme costituzionali dello scorso anno ha voluto significare proprio questo: state coi piedi in terra, tutt’al più volate basso.