In questo periodo mi sono ripetutamente e impietosamente chiesto, alla luce delle mie continue dissonanze rispetto agli atteggiamenti politici di quella autoproclamatasi “sinistra-sinistra” che ha trovato il suo irrinunciabile mestiere nel conflitto con Matteo Renzi: sto diventando un revisionista renziano? Sto annacquando la mia ispirazione e la mia cultura per sposare un moderatismo di comodo? Sto rinunciando a certi saldi principi per approdare a un indefinito modernismo? Domande leali e per nulla retoriche.
Possibile cioè che Renzi sia quel diavolo che tenta e porta la sinistra fuori dal seminato? Non sono un tifoso renziano, ne vedo pregi e difetti, ma gli riconosco una spinta positiva e innovativa per il nostro Paese. E allora? Sono diventato un traditore della causa? Ecco perché ho letto con estremo interesse, quasi con trepidazione ed emozione quanto ha scritto con rara lucidità e obiettiva schiettezza Massimo Recalcati in un articolo apparso su la Repubblica, in netta controtendenza rispetto alla posizione attuale del giornale, una spietata analisi che potrebbe diventare una pietra miliare nell’attuale fase politica.
In poche parole egli sostiene che l’odio verso Renzi altro non è che l’odio storico della sinistra verso “l’eterogeneo inassimilabile”, verso chiunque osi esprimere una cultura, una sensibilità, una generazione diverse rispetto a quelle ideologicamente canoniche e per ciò stesso considerato un usurpatore e un traditore da combattere, da espellere o da ridurre ad amico del giaguaro.
Da dove verrebbe questo odio? Dalla incapacità di ammettere la morte della propria identità ideologica, preferendo imputare tale morte “all’eterogeno”, al corpo “estraneo” che pretenderebbe un’ospitalità arricchente. E cosa è morto nella concezione storica della sinistra? La lotta di classe, la concezione etica dello Stato, l’identificazione del liberalismo come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, la separazione paranoide del mondo in forze del Bene e forze del Male, l’inclinazione populista della democrazia diretta, la riduzione delle politiche sociali all’assistenzialismo, il sospetto verso la singolarità in tutte le sue forme, il paternalismo verso le nuove generazioni.
Ho provato a rileggere tutte le critiche più roventi rivolte al renzismo in questa chiave critica e devo ammettere che la prova ha funzionato perfettamente. La riforma Costituzionale è stata accanitamente contrastata quale attentato ai capisaldi dello Stato; di certe misure fiscali non è stato valutato l’impatto sullo sviluppo economico, ma sono state viste tout court come un regalo alle classi privilegiate; la liquidità del partito è stata respinta come attentato alla struttura pietrificata del partito stesso; le politiche particolari in materia di lavoro sono state respinte in base ad uno schema generale e stucchevole di società equa; ogni rapporto con l’opposizione viene ridotto a rischio di contaminazione ideologica; i famosi 80 euro sono stati snobbati e sottovalutati in quanto non rientranti nell’assistenzialismo ufficiale e pansindacale; ogni cambiamento nella vita di partito viene rifiutato aprioristicamente a difesa dell’ingessamento nella dialettica interna: non potendo infatti più funzionare il centralismo democratico per il tramonto irreversibile della storica leadership, si ripiega sulla concezione di una maggioranza usurpatrice, che non può mai decidere per non fare ombra alla minoranza nostalgica che non si vuol rassegnare ad essere tale.
Gianni Cuperlo è disposto a rimanere nel Pd solo se chi guida smette di usare la clava, cioè se rinuncia all’autopsia del cadavere. Romano Prodi sposta la sua tenda lontano dal Pd, perché non vuol assistere all’autopsia. Enrico Letta sta in silenzio, esprime il disgusto e tiene le distanze, perché il primario di necroscopia lo ha defenestrato. Walter Veltroni teme che il Pd assomigli alla Margherita, ma non vede che è stiracchiato verso il Pds. D’Alema si ritiene leader maximo e sputa l’odio verso chi mette in discussione l’unica sinistra ammissibile, la sua. Pierluigi Bersani fa un tuffo quotidiano nel (suo) passato, facendo battutine ad uso e consumo di pochi ma carissimi amici. Giuliano Pisapia vuole ibernare il cadavere sperando che possa risuscitare.
Anche la storia parmense della sinistra è piena di riscontri sulla impermeabilità assoluta al cambiamento, dei quali è persino superfluo riparlare, tanto sono clamorosamente evidenti e significativi.
Massimo Recalcati, uomo di scienza, autorevole psicoanalista italiano, mette la sinistra sul suo lettino e ne fa uscire tutte le paranoie e i complessi. Qualcuno dirà che la politica non è la psicoanalisi. Sì, ma analizza quel che viene prima della politica e quindi ne scopre le profonde pulsioni. Mentre tutti si esercitano nell’anti-politica, Recalcati punta sulla pre-politica.
Esco rinfrancato ma preoccupato. Non sono un revisionista (così sostenevano le Brigate Rosse con riferimento al PCI degli anni settanta), anche perché oltre tutto non sono mai stato comunista. Forse mi salvo dai tuffi nel passato dal momento che non sono rimasto vittima delle ideologie della sinistra pur essendo di sinistra. È il caso di dire come Andrea Chenier durante la rivoluzione francese: «Non sono un traditore, uccidi, ma lasciami l’onore».