La nostra epoca si caratterizza, a livello politico, sociale ed economico, per le grandi riforme mancate. Si fa un gran parlare di riforme costituzionali, poi, quando si arriva al dunque, si preferisce lasciare le cose come stanno; la riforma della pubblica amministrazione cozza regolarmente contro le incrostazioni burocratiche e corporative; quella della scuola finisce normalmente nelle proteste di piazza; quella del mercato del lavoro sbatte contro la radicalità sindacale; quella della giustizia non riesce a vincere la pregiudiziale ostilità al cambiamento visto come attentato all’indipendenza della magistratura. La politica è indubbiamente pasticciona, incoerente, inconcludente, ma la società chiede il cambiamento salvo chiudersi a riccio quando le novità si profilano all’orizzonte. Scattano il benaltrismo, il maanchismo, il qualunquismo, l’egoismo, il corporativismo, etc. etc.
La Rai rientra in questo contesto di riforme mancate: tutti chiedono profondi cambiamenti nel servizio pubblico radiotelevisivo, ma al primo tentativo saltano le teste e si ritorna daccapo. Le recenti dimissioni del direttore generale Campo Dall’Orto (quasi amministratore delegato) stanno a significare la sostanziale intoccabilità del pachiderma o del carrozzone ( a seconda dei punti di vista). Volendo giocare con l’invitante cognome del dirigente costretto al frettoloso ritiro, si potrebbe dire: chi vuole operare in “Campo” aperto è condizionato fortemente “Dall’Orto” degli interessi consolidati.
Forse sarebbe molto meglio rinunciare agli straordinari disegni riformatori e ripiegare sul miglioramento dell’ordinaria gestione: partire dal basso, dalle piccole e grandi riforme concrete del quotidiano. Vale per la Rai e per tutte le istituzioni. Ma restiamo alla Rai. Non vivo incollato al video, seguo soprattutto l’informazione televisiva che ritengo sia la principale funzione di questo servizio pubblico. Ebbene se ne vedono e sentono di tutti i colori: microfoni regolarmente off line, collegamenti gestiti alla viva il parroco, conduttori e conduttrici con accento smaccatamente dialettale e che non sanno parlare correttamente italiano, traduttori simultanei clamorosamente inadeguati, giornalisti sopranumerari e privi di capacità critica, commentatori ridotti a tifosi di partiti e squadre di calcio, intervistatori piatti e insulsi, inviati speciali che di speciale non hanno nulla, etc. etc.
In poche parole qualità scadente a livello giornalistico: molti e poco buoni. Prima di decidere se fare tre, quattro o cinque telegiornali, anziché perdersi in alchimie informatiche, invece di preoccuparsi della concorrenza, si punti a (ri)qualificare chi lavora nell’informazione Rai: qualche corso linguistico, qualche esame preventivo, qualche selezione accurata. Spesso si ha la sensazione che si dia il microfono in mano al primo che passa o forse a chi è più raccomandato o forse a chi è più … (lasciamo perdere…).
È possibile che per un evento sportivo occorrano folte schiere di enfatici commentatori del nulla? Nicolò Carosio, padre di tutti i telecronisti, con i suoi “quasi gol” bastava e avanzava per creare l’atmosfera giusta intorno all’evento sportivo. Adesso invece…
Sergio Zavoli (un mio indimenticabile insegnante lo considerava il “dio” della televisione) alle prese con la storica alluvione di Firenze, fece una cosa molto semplice per spiegare e rendere l’idea di quanto stava succedendo: aprì finestra e microfono sulla strada ridotta a fiume. Era tutto il dramma di una città. Oggi fiumi di parole e la realtà non emerge.
Mi accontenterei che chi tiene in mano il microfono sapesse parlare e avesse mente e cuore per esprimere e trasmettere qualcosa. I consigli di amministrazione, i presidenti, i direttori, i budget, i bilanci, le commissioni di vigilanza dovrebbero venire prima, ma in verità vengono dopo. La politica inverte l’ordine dei fattori e purtroppo il prodotto cambia.