Un conto è parlare di brexit, un conto è “brexire”, cioè uscire veramente dalla Unione Europea e cominciare concretamente a trattare sulle modalità del divorzio lungo. La prima ad accorgersene è stata la premier inglese Theresa May, la quale, dalla paura che i suoi concittadini possano rendersene conto, ripensarci o scaricare sul partito conservatore il proprio malcontento, ha pensato bene di ricorrere frettolosamente alle urne per rafforzare la propria posizione politica, spiazzare i separatisti scozzesi e sconfiggere i laburisti approfittando del momento della loro estrema debolezza.
La Ue non sta comunque (giustamente) facendo ponti d’oro all’uscita inglese, al contrario sta compattandosi su una linea piuttosto dura e intransigente, della serie “l’hai voluta, adesso tienitela”.
Faccio fatica ad entrare nella mia testa, figuriamoci in quella del popolo inglese. Sono tuttavia convinto che, strada facendo, i britannici si pentiranno amaramente della loro scelta e quindi ho letto con grande interesse ed attenzione l’intervista rilasciata a la Repubblica da Tony Blair, il quale spera ancora che Londra possa rientrare nella Ue. “Spes contra spem”, direbbe Marco Pannella (sperare contro ogni speranza).
Il ragionamento dell’ex leader laburista ed ex premier, al di là della insopportabile saccenza di questi personaggi, che dimenticano bellamente i loro errori storici clamorosi (si pensi alla guerra contro l’Iraq per cui Blair è stato la solita quinta colonna guerrafondaia degli Usa), si basa sulla inconsistenza delle due argomentazioni fondamentali della brexit: la globalizzazione, che va accettata ed a cui si deve far fronte, non cedendo alle sirene del protezionismo e del nazionalismo, ma stando uniti, a livello europeo, non fosse altro che per poter competere con i giganti storici (Usa e Russia) e con quelli emergenti (Cina e India); l’immigrazione che va accolta considerando oltretutto e pragmaticamente come la maggior parte degli immigrati faccia lavori che gli inglesi non farebbero.
Ragionamenti lapalissiani che però in Gran Bretagna hanno fatto e fanno fatica ad essere presi in considerazione, probabilmente per motivi geografici, storici e psicologici più che politici.
Certo i tempi sono cambiati da quando furoreggiava Tony Blair, la sinistra era al potere in tutta Europa, negli Usa era presidente Bill Clinton. Oggi viviamo con la spada di Trump sulla testa, la sinistra è sbandata, divisa dal ritorno antistorico della diaspora ideologica, incapace di modernizzarsi e affrontare pragmaticamente la coniugazione tra libertà e uguaglianza, tentata dal guardarsi l’ombelico piuttosto che mettersi nella dimensione europea.
Checché se ne dica, mentre in Germania resta accesa con Martin Schulz la fiammella del socialismo canonico, Italia e Francia con Renzi e Macron stanno cercando di offrire all’Europa volti e programmi nuovi per una chance di cambiamento e di progresso. Non c’è da fare gli schizzinosi, come i “melanchonisti” in Francia e i “cespuglisti” in Italia. Anche perché abbiamo alle porte i grossi pericoli dei populisti.
Mi illudo che tra Italia e Francia, sotto l’impulso di Macron e Renzi, possa sortire finalmente un’alleanza che rilanci in senso moderno e riformatore l’Unione europea a livello istituzionale (federazione, presidente eletto, punti di governo comune) e di politica economica (a favore della linea sviluppista). Se poi in Germania prevalesse Schulz, tanto di guadagnato e sarebbe, a maggior ragione, tutta un’altra storia. Con o senza l’Inghilterra. Chissà…