Non so quante volte ho riletto le ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti (con le successive precisazioni), rese durante un’assemblea di studenti a Bologna, e che riporto di seguito: «Il lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. Per questo lo ottieni giocando a calcetto più che mandando in giro curriculum».
Sono andato alla pignola ricerca dell’appiglio scandalistico, che in molti hanno colto arrivando a chiedere le scuse (un cartello esibito dal leghisti al Senato “Poletti chieda scusa” con il contorno di una sfera blu da regalare al ministro “Pallone gonfiato”), le dimissioni (i Cinquestelle: “Parole vergognose e inqualificabili, per il renzismo il merito non conta” oppure “Che vergogna! Mandiamolo via”), a spendere parole pesantissime (“Sciagurato e indegno”, così ha detto Matteo Salvini), a organizzare un flash mob davanti al ministero del Lavoro (Sinistra Italiana: “Lavoretto o calcetto?”), a buttarla pesantemente in politica (Enrico Rossi, governatore toscano, sostiene che sia il “segno del degrado che avanza”).
Che lo scontro politico avesse raggiunto un livello inqualificabile, me ne ero accorto da tempo, ma confesso che, in questo caso specifico, mi sono decisamente stupito (alla faziosità non c’è mai limite).
Sono perfettamente d’accordo col ministro Poletti nel metodo e nel merito. Dalle mie episodiche ma significative frequentazioni con i giovani d’oggi ho ricavato impressioni, perfettamente collimanti con i consigli del ministro Poletti. Vivono il lungo periodo scolastico e universitario come se fossero sulla luna in attesa di rientrare sulla terra. Molto spesso trascinano stancamente lo studio (a danno delle loro troppo generose famiglie), quasi a voler esorcizzare e rimandare il difficile e problematico impatto col mondo del lavoro. Una volta raggiunto il titolo di studio viene il bello. Hanno l’inconscia speranza che il lavoro possa essere dietro l’angolo ad aspettarli e allora mandano in giro il loro biglietto da visita (curriculum) via internet, nella segreta illusione che possa bastare per farsi conoscere e per conoscere. Naturalmente, salvo autentici colpi di fortuna, non succede nulla e allora sotto con corsi di specializzazione, con master, con altri interventi formativi per alzare il livello della loro preparazione e per aggiungere paragrafi al curriculum.
Sia chiaro, migliorare la preparazione culturale e professionale è buona cosa indipendentemente da tutto. In riferimento allo sbocco lavorativo si registrano però due tendenze: da una parte il mondo delle imprese sembra cercare alti profili culturali e professionali, dall’altra sembra appiattire tutte le preparazioni, dai voti di laurea ai corsi post-laurea, a meno che non siano direttamente connesse ai propri programmi di formazione e di inserimento del personale.
Quindi tutto resta in sospeso, l’impatto si allontana nel tempo, la frustrazione aumenta e l’approccio al mondo del lavoro diventa sempre più difficile. I giovani hanno assorbito la mentalità dello studio, ma non hanno quella del lavoro: quando si accorgono della dicotomia fra le due sfere rischiano la crisi esistenziale. Molto capaci, fin troppo, di tessere rapporti di amicizia e sentimentali fra coetanei, dimostrano una timidezza endemica, sfociante nel disinteresse e nell’isolamento, verso la società nelle sue dinamiche strutturali (partiti, sindacati, associazioni, imprese di vario tipo). Ciò che di positivo riescono a combinare (ed è molto) viene realizzato nello spontaneismo individuale e di gruppo. Sono effettivamente estranei (colpa anche della famiglia, della scuola, delle generazioni precedenti, etc.) ad una mentalità relazionale, che possa metterli a diretto contatto col mondo del lavoro, non hanno la pazienza e la perseveranza per affrontarlo. Ecco quindi la provocatoria opportunità del consiglio metodologico polettiano: lasciate perdere i curriculum e cercate di farvi conoscere intessendo relazioni a ciò finalizzate.
In secondo luogo bisogna realisticamente considerare come è strutturato ed articolato il mercato del lavoro e quali sono i meccanismi che fanno incontrare la domanda e l’offerta. Il settore pubblico viaggia a concorso. La rete che il Jobs Act ha previsto per supportare concretamente i disoccupati in cerca di lavoro è di là da venire e sembra più orientabile su interventi di emergenza che su un organico e generalizzato percorso.
Allora tutto è lasciato all’iniziativa delle singole imprese, delle agenzie private e dei singoli candidati: le une cercano e gli altri si propongono. Durante la mia modesta ma intensa vita professionale ho agito anche in questo campo, in qualità di responsabile del personale. Cosa facevo? Ricevevo le domande di lavoro corredate dal curriculum. Facevo una prima grossolana selezione a seconda delle mansioni da coprire. Convocavo i candidati per colloqui piuttosto approfonditi, a volte prevedevo anche prove scritte sulle materie inerenti il potenziale lavoro da svolgere, acquisivo informazioni e segnalazioni esterne. Sottoponevo i casi meritevoli di maggiore attenzione al vaglio di una ulteriore selezione, coinvolgendo i responsabili d’ufficio interessati al riguardo. Adottavo una mia scala di meritocrazia costruita sulla base di alcuni criteri testati nel tempo, tra cui aveva un peso di rilievo la preparazione scolastica, e quindi arrivavo alla scelta.
Penso che le trafile siano, più o meno, ancora così. Certo, se potevo attingere in tutto o in parte ad un bacino predisposto dall’ente di formazione a cui ero istituzionalmente collegato, le cose andavano meglio da tutti i punti di vista. I candidati arrivavano all’appuntamento dopo aver frequentato un corso di specializzazione ad hoc e quindi la scrematura avveniva in un contesto di proficuo raffronto scuola-lavoro.
Qualcuno teme e sospetta che relazione finisca col diventare raccomandazione e meritocrazia faccia rima con aristocrazia e persino con massoneria. D’altra parte per evitare questi eventuali rischi degenerativi non vedo la possibilità di interventi pubblici al di là di quelli già ipotizzati dalla riforma del mercato del lavoro; credo soprattutto nella automaturazione, dalla parte dell’offerta e della domanda di lavoro, di metodologie di ingaggio più serie, razionali ed approfondite.
Giuliano Poletti ha ben più esperienza imprenditoriale di me e conosce pregi e difetti, limiti e aperture delle procedure in atto e molto bene ha fatto a scoprire gli altarini, usando un’immagine eloquente e provocatoria (quella del calcetto), che costringa i giovani a riflettere ed a concretizzare i loro intendimenti e comportamenti .
Quando i ministri sono dei politici puri, fanno pena perché vivono e operano al di fuori della realtà; quando provengono da esperienze tecniche e professionali concrete, sono fuori posto perché mancano della dimensione politica; quando espongono programmi, sono dei venditori di fumo che eludono i problemi e illudono i cittadini; quando parlano terra-terra, offendono la gente, devono solo chiedere scusa.
Mio padre, quando ascoltava un oppositore esporre le sue prevenute, gratuite e feroci critiche all’operato di un esponente di governo, diceva con il suo solito sarcasmo: «Mo metgol lu, cal fa gnir al vén in-t-l’uvva…».
Pensate, se ministro del Lavoro fosse Salvini o Di Battista o Enrico Rossi o Fratoianni o Scotto, i giovani non avrebbero nemmeno bisogna di sparpagliare il loro curriculum, verrebbero prelevati a domicilio e catapultati sul posto di lavoro. Se poi ministro fosse Pierluigi Bersani, i giovani sarebbero tutti addirittura assunti come direttori. Di cosa? Non si sa, ma questo è un altro discorso…