L’indomani dell’elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella scrivevo la seguente riflessione: «Superando di petto l’ironia sulle origini del nuovo Presidente della Repubblica (un democristiano, un personaggio della prima repubblica, un uomo d’altri tempi), se si è voluto trovare qualcuno che rappresentasse veramente gli Italiani, si è dovuto fare ricorso anche e soprattutto alla cultura del cattolicesimo progressista. Resta poco di questa scuola, ma quel poco vale di più del molto (troppo) della vuota scuola moderna. Fa scalpore lo stile sobrio del Presidente: un bagno d’umiltà dopo una sbronza di superbia, una boccata d’ossigeno dopo l’anidride carbonica. Non so bene il perché, ma quando vedo il nuovo Presidente, senza nulla togliere al suo predecessore, mi commuovo. Forse sto invecchiando. Oggi mi è rinata una piccola speranza, come ai tempi di Zaccagnini, di Moro, di Ermanno Gorrieri e di Carlo Buzzi. Mattarella non ha forse detto di guardare alle speranze degli Italiani. Io, fino a prova contraria, sono Italiano e spero…»
Qualche giorno fa Alberto Melloni su la Repubblica si chiedeva, con la sua contorta e sussiegosa lucidità, dove fossero politicamente finiti i cattolici progressisti. Mi sono sentito toccato nel vivo e direttamente interpellato, dal momento che mi sono sempre considerato un cattolico progressista in cerca di una casa politica accogliente e definitiva (per quello che di definitivo ci può essere su questa terra).
Tento di seguito una brevissima e spannometrica ricostruzione storica, mescolando opzioni personali alle fasi storiche degli ultimi cinquant’anni e oltre. Nella DC ci stavo molto stretto: non era affatto, per me e per la sinistra cattolica, una rassicurante sponda (Melloni oggi la considera tale), era l’unico spazio in cui si poteva provare ad impegnarsi cercando di stiracchiare faticosamente un partito di centro verso sinistra o quanto meno costringendolo a guardare a sinistra. Ricordo al riguardo quanto affermava Ermanno Gorrieri, uno dei leader tra i cattolici progressisti, rivolto ai più intemperanti aderenti alla sinistra cattolica, quella sociale in particolare: non illudiamoci, siamo in un partito che non è e non sarà mai di sinistra.
Sono stato, nel mio piccolo ed al mio modesto livello, un fautore del dialogo con i comunisti: quando Aldo Moro sembrava dare uno sbocco politico e programmatico, seppur provvisorio, a tale dialogo, lo hanno ucciso e non certo per caso. A mio giudizio la vedovanza della sinistra cattolica comincia lì, come del resto tutta la precarietà della storia politica italiana ha origine dalla morte di Aldo Moro. Dopo un periodo di collaborazione tra DC e PCI, atto a sdoganare definitivamente i comunisti dal socialismo reale e a trasformare il partito cattolico in una forza laica moderata ma aperta al nuovo, sarebbe dovuto intervenire quel bipolarismo tra questi due partiti capaci di attrarre tutto (o quasi) il resto, quel bipolarismo che ancor oggi cerchiamo disperatamente con “il lanternino”. Era questo il progetto politico di Moro bruscamente interrotto e di cui ancor oggi si sente la mancanza: nella politica italiana si è saltata una fase, quella ipotizzata appunto da Aldo Moro, e tutto ne è risultato scombinato.
Poi venne il craxismo (ho sempre pensato che, in presenza di Moro, Bettino Craxi avrebbe sì e no fatto l’assessore ai lavori pubblici al comune di Milano) in cui non riuscirono a riconoscersi né i comunisti né i cattolici di sinistra, gli uni costretti ad accordi di potere a livello periferico e para-politico con i socialisti, gli altri testardamente legati alla DC, mentre alcuni rispondevano al proprio smarrimento approdando coraggiosamente al Pci e venendone regolarmente delusi. De Mita non riuscì a riprendere il discorso di Moro: ne aveva l’intelligenza, ma non la pazienza, il carisma, la sensibilità e la credibilità. Il suo capolavoro rimane l’elezione di Francesco Cossiga a Presidente della Repubblica, per il resto si impantanò nell’anticraxismo e nella gestione del potere.
Quando terminò la segreteria DC di De Mita, uscii dalla Democrazia Cristiana e fui facile profeta, perché di lì ebbe inizio l’ultima bruttissima fase della cosiddetta prima repubblica.
La sinistra cattolica ebbe un sussulto con il partito popolare nato dalle ceneri della DC, ma a sinistra non c’erano interlocutori e dopo tangentopoli fu leghismo in esplosione, “destrismo” in ristrutturazione, “democristianismo” in libera uscita e berlusconismo in salsa aziendal-mediatica, mescolati abilmente dal cuoco di Arcore nella pentola di un vero e proprio regime.
L’anti-berlusconismo ridiede fiato alla sinistra cattolica che trovò in Prodi, pur con tutti i limiti di un personaggio che non mi ha mai convinto fino in fondo, il tessitore di una nuova alleanza politica a sinistra, che, tra mille vicissitudini ed alcuni aggrovigliati passaggi, approdò al Partito democratico in modo forse un po’ troppo sbrigativo.
Il progetto politico di Moro era un altro: probabilmente lui vedeva che i cattolici non avrebbero potuto convivere con la visione politica di una sinistra seppur pienamente democratica, che il loro canale fondamentale non sarebbe stato questo, ma i cattolici progressisti, senza riferimenti al centro, furono costretti a tentare strade diverse, a rendere definitivo quel che Aldo Moro considerava utile ma provvisorio, rischiando probabilmente di buttare assieme all’acqua sporca delle ideologie anche il bambino delle idealità e della politica intesa come servizio.
Il PD ha indubbiamente superato quel che rimaneva della contrapposizione ideologica tra le sue due componenti fondamentali, ma non ha trovato il giusto collante e alla fine l’ideologismo è rispuntato, non certo fra post-comunismo e post cattolicesimo di sinistra, ma fra conservazione socialista identitaria e sperimentazione liberal, fra tradizione e innovazione.
Il cattolicesimo di sinistra non è riuscito ad inserirsi nell’orchestra, ha fornito alla Repubblica alcuni importanti solisti, che, giustamente, Melloni individua in Leopoldo Elia, Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Sergio Mattarella, fino addirittura a comprendervi, con una certa forzatura, Mario Draghi.
Siamo ai giorni nostri. Sono senza partito. Dalla metà degli anni ottanta in poi ho votato in modo diversificato: alle elezioni europee Rifondazione comunista quando candidò il missionario padre Eugenio Melandri, poi i Verdi, ultimamente il PD. Alle elezioni politiche i Popolari con qualche residua illusione, la Margherita con molto sforzo, il PD con tanta speranza, Renzi quale ultima e unica spiaggia. Adesso è venuto il bello. Qualcuno si illude di riportare indietro le lancette dell’orologio. Follia pura, se non fosse anche sete di potere. Torno ad Alberto Melloni. Lui chiede un nuovo canale per la sinistra cattolica e paventa il rischio di dover attendere vent’anni, il tempo utile per rifare una classe dirigente. Io sarò già morto e probabilmente il mio cadavere sarà già stato esumato. Vedrò tutto da un altra angolazione.