Le recenti retate sui dipendenti pubblici assenteisti, al di là del facile e sterile moralismo che possono innescare, inducono a riflettere seriamente. Innanzitutto è perfettamente inutile che ci scandalizziamo della corruzione dilagante in campo politico: mi pare che valga anche in questo caso l’espressione evangelica “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Il marciume nella nostra società è molto diffuso; è pur vero che il buon esempio dovrebbe venire dall’alto, ma è altrettanto vero che l’infezione può partire anche dalla periferia per arrivare al centro del corpo di una persona come del corpo sociale.
Viene soprattutto spontaneo riproporsi la verifica dello storico e problematico “assioma” secondo il quale ogni popolo avrebbe la classe politica che merita. Certamente, a livello di base, la mancanza di civismo, di cui il senso del dovere è il fondamento, è il presupposto per innescare un rapporto democratico debole all’interno del quale facilmente possono annidarsi l’affarismo e la corruzione. Allo stesso e invertito modo il rappresentante del popolo, che si comporta scorrettamente o commette addirittura dei reati nell’esercizio delle sue funzioni, rappresenta una “istigazione a delinquere” per i suoi rappresentati. Il rischio di questa triste corrispondenza biunivoca non deve però rappresentare il motivo di una sconfortata rassegnazione e di una retrocessione qualunquistica nel proprio guscio anti-sociale e anti-politico. Sarebbe il disastro annunciato per la democrazia e per una civile convivenza.
C’è un concetto a livello religioso molto interessante al riguardo: il peccato oltre a creare un danno spirituale e morale all’individuo che lo commette, reca una ferita mortale a tutta la comunità di cui quell’individuo è parte (per il catechismo cattolico, se non vado errato, alla Chiesa, cioè al corpo di cui i battezzati sono parte integrante).
È un discorso che può valere anche per il corpo della società civile. Se io non lavoro e quindi rubo lo stipendio, reco un danno che si ripercuote a catena su tutta la comunità: impoverisco le casse pubbliche, tolgo il lavoro ad un altro soggetto che lo potrebbe svolgere meglio, danneggio i cittadini ai quali dovrei recare un servizio, induco in tentazione i miei colleghi, avallo un’immagine contraffatta dell’apparato pubblico, in poche parole danneggio tutto e tutti.
Pensiamo all’ospedale napoletano risultato teatro di smaccato assenteismo (stando almeno ai risultati di una indagine dei carabinieri). Prendiamo un medico che si assenta dal lavoro facendosi timbrare il cartellino da un collega: sicuramente, come minimo dovrà restituire il “favore”; indebolirà la struttura a danno dei malati presenti in corsia; giustificherà analoghi comportamenti degli infermieri e del personale ausiliario e magari indurrà all’omertà i suoi superiori; alla lunga danneggerà il bilancio dell’ospedale che, in qualche modo, dovrà far fronte a queste sommerse lacune dell’organico; screditerà un intera categoria professionale; potrà addirittura spostare l’utenza sulle strutture private creando diseconomie e diffusa sfiducia verso il sistema sanitario pubblico. Uno dei tanti esempi che si possono fare, senza voler criminalizzare alcuna categoria.
Forse siamo troppo abituati a scaricare le colpe, per quanto non va nella nostra società, sulle strutture e sulle istituzioni: dobbiamo avere l’umiltà e la pazienza di guardare anche ai comportamenti individuali a tutti i livelli.
C’è però anche un’altra figura retorica da scomodare: se la radice è malata, tutte le parti della pianta ne soffrono fino a morirne. Rimanendo teoricamente nel campo sanitario, se il ministro della salute pubblica intasca tangenti dalle case farmaceutiche o dalle cliniche private, come può pretendere che gli operatori sanitari si comportino onestamente e correttamente, facendo il loro dovere.
I pazienti lettori di questi miei pistolotti giornalieri dovranno abituarsi ai miei frequenti richiami agli insegnamenti paterni, molti dei quali peraltro potranno essere letti nel libro contenuto nell’apposita sezione di questo sito.
Riporto di seguito un episodio che la dice lunga sull’etica del lavoro. In un cantiere edile in cui lavorava, mio padre assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre aveva una linguaccia che non poteva star ferma e li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale. Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”. Anche il sindacato, non certamente esente da colpe nel difendere sempre tutti, anche i fannulloni, prenda, incarti e porti a casa.
Chiudo con un’altra citazione paterna sul tema della diffusa e radicata corruzione nella nostra società. Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo: «Bisogna butär tùtt in tazér parchè ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tùtti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della visione affaristico-massonica della nostra società.
Qualcuno, volendo dissacrare il mitico detto “il lavoro nobilita l’uomo” gli fa la provocatoria aggiunta “e lo rende simile alla bestia”. Sarei d’accordo con una semplice correzione, a condizione cioè di inserire in mezzo “l’assenteismo”, in modo che l’espressione suoni così: “il lavoro nobilita l’uomo e l’assenteismo lo rende simile alla bestia”.