“Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”, così si esprimeva Gesù di Nazaret contro l’establishment clericale dell’epoca. Mi sono tornate nitidamente alla memoria queste parole evangeliche ascoltando le reazioni da parte di autorevoli esponenti della Chiesa cattolica istituzionale e quelle di tanti suoi freddi e bigotti sostenitori, in merito ai drammatici problemi del fine vita.
Ho messo in contrapposizione le asettiche elucubrazioni dogmatiche di molti cattolici alle sconvolgenti testimonianze dei parenti di persone, disperatamente ma dignitosamente, sottopostesi al suicidio assistito: soggetti per i quali, in coscienza, la vita non aveva più un senso. Non ho potuto che misurare l’atroce distanza che corre tra la religione delle regole e la fede in Dio che si concretizza nella compassione verso i fratelli sofferenti. Un abisso di equivoco degno dell’ipocrisia di scribi, farisei e dottori della legge: quelli che hanno messo in croce Gesù, così come oggi mettono in croce i Piergiorgio Welby, le Eluana Englaro, i Lucio Magri e i Fabiano Antoniani. La dico grossa se faccio il paragone con il fanatismo dei jihadisti musulmani? Forse sì, ma lo faccio ugualmente.
Preferisco tuttavia riflettere in positivo, rifacendomi ancora una volta per un attimo alla parabola evangelica del Padre misericordioso, la più eloquente sull’atteggiamento divino nei confronti della creatura umana. Provo a parafrasarla mettendo al posto del figlio prodigo un malato terminale (il caso più clamoroso che in un certo senso li riassume tutti). Non ce la fa più a sopportare il dolore, è disperato, non trova più la forza di vivere e dice fra sé: «Voglio tornare da mio padre, perché non riesco più ad andare avanti così…». Il padre commosso lo accoglierà a braccia aperte e gli dirà: «Ti aspettavo, ho visto che non riuscivi più a reggere la situazione e hai fatto bene a tornare, è tutto finito, ora sei con me e voglio che tu sia felice con me, non ci lasceremo più…». Ci sarà anche il figlio rompicoglioni che insorgerà e protesterà: «Ma tu non ci hai insegnato che la vita è sacra e che solo tu ce la puoi dare e togliere…». E allora il padre ribatterà: « Tu hai fatto tutto quel che potevi per alleviare le sofferenze di questo tuo fratello? Questo era il tuo compito. Tocca a me giudicare se questo tuo fratello non riusciva più umanamente a vivere, solo io posso capirlo perché ho sofferto con lui e per lui e ora lo prendo con me nella vita eterna che gli ho conquistato sulla Croce». E si farà festa…
Sono partito dal discorso religioso non per sottovalutare la dimensione laica di questi problemi, ma perché credo che dove ci sta il più ci stia anche il meno. Infatti, se anche il Padre eterno (per chi crede) avrà questo atteggiamento comprensivo e rispettoso, a maggior ragione il legislatore civile (per tutti) dovrà affrontare con analoghi atteggiamenti i drammi dei cittadini giunti ai limiti della sofferenza umana.
Davanti a questi sconvolgenti vicende non bisogna sfoderare le armi del leguleio, ma le sensibilità del legislatore, per normare con delicatezza e non per tranciare giudizi, per alleviare le sofferenze concrete e non per difendere principi astratti.
Solo chi condivide la sofferenza, o almeno è sensibile verso chi soffre, può fare buone leggi in tutti i campi, soprattutto in materie che toccano i cittadini nel vivo della loro carne.
In conclusione mi concedo una digressione, quasi una battuta. Penso non debba essere l’onorevole Gaetano Quagliariello o altri parlamentari proni alle volontà clericali, in vena di pontificare ad ogni piè sospinto sulla sacralità della vita, a decidere come devo morire (uno spunto polemico felice di Pierluigi Bersani); aggiungo non deve essere neanche Paola Binetti, né i cardinali Müller, Runini o Bagnasco e nemmeno il Papa a stabilire come dovrò morire. Lo deciderò ascoltando la mia coscienza e, siccome sono credente, mettendomi di fronte al mio Dio, quello che mi ha annunciato e testimoniato suo Figlio Gesù.