Chissà perché mi è venuto spontaneo accostare due notizie di questi giorni: l’indagine sullo sfruttamento del lavoro delle braccianti in Puglia e il tetto Rai ai compensi per i collaboratori artistici e i super giornalisti.
Da una parte c’è chi muore di fatica per due euro l’ora nelle campagne baresi, ingaggiato e oppresso dai moderni racket camuffati da agenzie interinali, dall’altra chi guadagna milioni di euro in televisione senza avere peraltro grandi doti e capacità e senza far fronte a gravi responsabilità.
Oltre alla palese e clamorosa ingiustizia, mi ha colpito la reazione a queste provocatorie disuguaglianze: l’indifferenza verso le poveracce oppresse e ricattate dal caporalato moderno (lo sostiene il procuratore di Trani); la preoccupazione di perdere i servigi di pochi fortunati costretti a guadagnare non più di 240 mila euro.
Dal momento che gli odierni veri sfruttati non hanno nemmeno la forza di protestare in piazza e di rompere qualche vetrina, nessuno sposa fino in fondo la loro causa, nemmeno i populisti sempre pronti a saltare sul carro delle varie ribellioni sociali, proprio quelli che contrastano l’arrivo degli immigrati che magari poi finiscono nel tremendo meccanismo del più bieco sfruttamento della mano d’opera.
È una vergogna che colpisce il nostro Paese, davanti alla quale sappiamo solo balbettare nuove leggi e propositi di controlli severi. Quanta apprensione invece per le nostre giornate televisive in Rai compromesse da un sacrosanto divieto allargato dai funzionari pubblici ai collaboratori della televisione di Stato. Ma chi se ne frega se le Tv private ingaggeranno questi personaggi rubandoli (?) alla Rai e quindi falseranno la concorrenza e l’audience!!! Vadano tutti a quel paese! Gente che per condurre un programma televisivo giornaliero guadagna intorno al milione e mezzo di euro…
Ricordo quando un mio cugino, persona semplice ma arguta, ipotizzava un’astronomica parcella per il chirurgo che doveva operare ad un ginocchio un miliardario divo del pallone. Diceva: «Se questo calciatore guadagna tanto, solo perché è capace di dare un calcio ad un pallone, cosa dovrebbe guadagnare un luminare della chirurgia capace di sistemargli il menisco…».
Siamo nel recinto capitalistico, laddove esplodono le maggiori incongruenze di un sistema, che, come titola un libro di Giorgio Ruffolo, avrà pure i secoli contati, che, come purtroppo insegna la storia, non ha alternative, vista la misera sorte avuta da esse e sulle cui macerie è risorto un capitalismo ancor più drastico e opprimente, ma che deve essere corretto nei suoi meccanismi.
Quella di cui sopra sarebbe la vera sfida controcorrente per la sinistra politica dibattuta e combattuta in insulse diatribe identitarie, che non ha il coraggio (sic) di ipotizzare una Rai che faccia a meno di Carlo Conti, di mobilitare una task force che vada a snidare le vipere del vero sfruttamento dei lavoratori in certe campagne e in certe fabbriche, smettendola di fare le pulci alla riforma dello statuto dei lavoratori e di coccolare e corteggiare il divismo annidato negli studi televisivi, pronto magari a fare da cassa di risonanza ai pruriti sinistrorsi ed alle personalistiche fratture di Tizio e Caio.
A proposito del libro sopra citato, è in bella mostra sugli scaffali della mia biblioteca: non ho il coraggio di leggerlo, perché temo di rivalutare i fantasmi anticapitalisti del passato e di ripiombare in certe tentazioni pericolose, con il vantaggio però di mandare affanculo gli odierni personaggi che giocano alla caccia al tesoro di chi è più nominalmente di sinistra.