Ogni tanto, a livello di stampa, emergono incredibili dati su abusi, ingiustizie e privilegi nel settore del pubblico impiego. Il tempo di scandalizzarsi, gridare “basta” e poi tutto ritorna nella normalità.Non credo sia una questione legislativa: le leggi ci sono, ma non vengono applicate o vengono applicate in modo distorto o vengono apertamente violate.E i controlli? A parte la storica tendenza ad incappponirsi sulla pagliuzza formale lasciando correre la trave sostanziale, ho la netta sensazione che viaggino a scartamento ridotto rispetto a quanto viene fatto nel settore privato. Della serie cane non mangia cane.In questi giorni vengono pubblicati dati paradossali relativamente all’inchiesta sugli imboscati, coloro che riescono, grazie a certificati di inabilità e permessi, a evitare i lavori più faticosi o in orario disagiato. IL 12% dei dipendenti della sanità pubblica sono inidonei al lavoro per il quale sono stati assunti; il 13,5% dei dipendenti pubblici è beneficiario della legge 104 quanto a disabililità grave o a parentela con soggetti in tale situazione. Credo sia solo la punta dell’iceberg, non voglio generalizzare e tanto meno criminalizzare i dipendenti pubblici, ma le sacche di assenteismo, disimpegno, privilegio sono sicuramente molto grosse.E i sindacati? Qui si apre un discorso delicato: il corporativismo e il clientelismo li hanno imprigionati e coinvolti in una difesa di tutti e a tutti i costi, accettando una politica di bassi salari (giustificata da ragioni di carattere erariale) compensati da privilegi (apparentemente non costosi), ma in realtà a scapito del merito e della produttività.Mia sorella aveva riscontrato questa magagna dal fronte professionale e da quello amministrativo, in parole povere da dipendente pubblico e da pubblico amministratore. Mi raccontava un episodio piuttosto emblematico accaduto all’interno dell’amministrazione comunale parmense. Una mattina l’assessore al personale, senza preoccuparsi di presentarsi come tale, telefonò in un ufficio comunale per mettersi in contatto con un dipendente. In sua assenza rispose il commesso che spiegò come il collega fosse momentaneamente assente seppure regolarmente in servizio. L’assessore non indagò oltre e preannunciò una successiva chiamata. Il commesso diligentemente (?) si permise di consigliare la richiamata entro le 13,30 (l’orario d’ufficio scadeva alle 14,00) dicendo apertamente che dopo tale ora non avrebbe più trovato nessuno, perché tutti (o quasi) se ne andavano per tempo… L’assessore a quel punto si inorecchiò e rispose: «Bene, allora facciamo così: quando il suo collega rientra mi faccia chiamare…». «Chi devo dire?» chiese il commesso sentendosi rispondere seccamente: «L’assessore al personale!». La cosa si riseppe e non vi dico gli improperi che l’ingenuo commesso raccolse dai colleghi messi a nudo nella loro sommersa ed omertosa trasgressività.Giacché sono, come spesso mi accade in vena di ricordi famigliari, voglio riportare come rifletteva ad alta voce mio padre di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…».